(Intervento a “Scuola 2000, Computer sul
banco”) Non si può parlare di abilità di calcolo e calcolatore in
rapporto all’educazione matematica senza collocare il discorso nel contesto
reale della scuola italiana oggi. Un quarto di secolo fa
i programmi della nuova Scuola Media Unica recitavano: <<L'esercizio
non dovrà essere soltanto strumentale per il consolidamento della tecnica delle
operazioni e dei procedimenti; esso deve essere inteso a fare gradualmente
acquisire all’alunno il pieno possesso dei significati concettuali. Pertanto
non ci si dovrà trattenere su complicati calcoli (espressioni aritmetiche
laboriose ecc...)>>. Quasi dieci anni fa entravano in vigore i
nuovi programmi della scuola media, in cui sta scritto: <<Va
sconsigliata l'insistenza su aspetti puramente meccanici e mnemonici, e
quindi di scarso valore formativo. Si eviterà l'imposizione di regole che
potrebbero essere più naturalmente individuate in altri contesti più
appropriati. Ad esempio, argomenti come la scomposizione in fattori primi, la
ricerca del massimo comune divisore e del minimo comune multiplo, il calcolo
di grosse espressioni aritmetiche, l'algoritmo per l'estrazione della radice
quadrata, il calcolo letterale avulso da riferimenti concreti, non dovranno
avere valore preponderante nell’insegnamento e tanto meno nella valutazione.>>.
Eppure nella maggior parte delle classi italiane si passa la fetta più consistente
del monte ore di matematica a calcolare espressioni, e dove ciò non accade
genitori inferociti ne reclamano la pratica, magari, ed è il massimo del
paradosso, in nome del "rispetto del programma". L'insegnamento della
matematica è pesantemente impastoiato da prassi centenarie e stereotipi inestirpabili.
E forse non c'è da stupirsene se si riflette sulla cultura matematica
diffusa. Quante persone ho sentito dichiarare, quasi con orgoglio, che loro
"di matematica non hanno mai capito nulla"! Per contrappeso la
fiducia nella matematica (e in generale nella scienza, dato che matematica e
scienze sperimentali vengono tranquillamente assimilate) come fonte di verità
è così radicata che tutti, quando vogliono opporre una certezza definitiva
alla dialettica del dubbio e dell’incertezza fanno ricorso alla sentenza
"come due più due fa quattro". Eppure tutti conoscono
quel vecchissimo indovinello in cui due più due fa tre (in una delle sue
varie versioni esso recita più o meno così "Due padri e due figli
prendono da un attaccapanni un cappello ciascuno. Alla fine dall’attaccapanni
mancano tre cappelli. Come è possibile?") e tutti portiamo al polso uno
strumento in cui 11 (o 23 se si preferisce) + 4 fa inequivocabilmente 3.
Nessuno si è preoccupato di insegnare a milioni di italiani che l'addizione
come isomorfismo della somma di quantità ha delle fondamentali e in fondo
grossolane condizioni di applicabilità. Ciò significa in sostanza non porsi
neppure il problema del che cosa rappresentano le astrazioni della
matematica. Ovvio che poi la maggior parte delle persone non capisca a che
cosa servano. STEREOTIPI È quasi incredibile
come le persone si affidino più agli stereotipi che alle proprie esperienze
personali. C'è un mio alunno che di suo avrebbe una felice capacità nascente
di induzione, un germe coltivabile di atteggiamento sperimentale, un gusto a
formulare ipotesi; suo padre pretende invece per lui un addestramento a
divenire una piccola calcolatrice meccanica, carriera oltretutto sbarrata ormai
da macchine meno costose e più affidabili di un uomo. Quel padre è ingegnere,
fa parte cioè di quella categoria di persone che per ragioni professionali
hanno a che fare con la matematica. Egli nel suo lavoro utilizza applicazioni
matematiche e non calcoli puramente numerici; si trova a dover scegliere o
costruire l'equazione adatta per risolvere un problema, impostarla
correttamente, inserire delle misure, e quindi prima ancora procurarsele, prevedere
attraverso il calcolo dimensionale quale tipo di grandezza risulterà, ma mai
si trova a dover calcolare con l'unico ausilio della matita un’espressione
numerica, per la semplice ragione che né lui, né tanto meno il suo datore di
lavoro o superiore gerarchico accetterebbero un risultato non convalidato da
una macchina, fosse pure il vecchio regolo da tasca. La moglie
dell’ingegnere, diplomata alle magistrali, fa la casalinga e chiede con passione
che suo figlio calcoli espressioni, perché "alle superiori gliele
chiedono". La matematica di cui ha avuto bisogno come maestra e come
casalinga non è stata quella, eppure si comporta come il suo successo professionale
e la felice soluzione dei problemi quotidiani fossero stati legati al calcolo
delle espressioni. Come dire che a questi genitori sta più a cuore il
successo dei propri figli nella competizione della scuola superiore così
com'è che non il fatto che la scuola superiore, che non rinnova i propri programmi
dagli anni '20, e la cui ventilata riforma fa
ridere tutto il mondo perché sta per compiere il suo terzo lustro di non
attuazione, abbia perso il rapporto di funzionalità rispetto alle
professionalità cui dà accesso. E spesso anche gli
insegnanti della scuola media finiscono per assumere come criterio il
successo dei propri alunni al corso di studi superiore, anche se nei
programmi si dice con estrema chiarezza che la scuola media <<non
è finalizzata all’accesso alla scuola secondaria di secondo grado>>.
Lo scopo per cui si lavora è dunque permettere a una minoranza di alunni di
essere avvantaggiati, non tanto nell’acquisire abilità specifiche ma pur
sempre utili ai fini della formazione, bensì nell’assimilare tecniche la cui
unica utilità esplicitamente dichiarata è quella di permettere di essere
valutati positivamente da chi dal possesso di tali tecniche fa dipendere una
valutazione positiva: il cerchio si chiude. Ma ciò non sarebbe ancora così
grave se non avesse la conseguenza di privare la totalità degli alunni, la
maggior parte dei quali si avviano a un più o meno precoce e dequalificato
inserimento nel mondo del lavoro, di quelle esperienze formative di base che
almeno possano fornire tutti di un substrato di strumenti culturali di
validità universale. EDUCAZIONE MATEMATICA In definitiva, se per
matematica si intende il saper calcolare, la scuola di base non ha che due
tipi di scelta, visto che le macchine da calcolo esistono dalla meta del '600: o addestrare i bambini a fare a meno delle macchine
da calcolo, o addestrare i bambini a usare le macchine da calcolo. Se invece si intende la
matematica come una componente del pensiero umano, un’insieme di modi di
operare della mente indispensabili all’adattamento dell’uomo all’ambiente,
allora nel quadro dello sviluppo del pensiero matematico anche il calcolo
assume un posto diverso, e con esso il rapporto con le macchine da calcolo. Un primo esempio, che
propongo a chi vorrebbe proibire l'uso delle calcolatrici a scuola perché
l'abitudine a usarle renderebbe i bambini incapaci di cavarsela senza, è
molto banale e consiste nella diversa collocazione della x. Se chiediamo ai
bambini di calcolare 156 : 12 = x diamo un compito che, posto in quel modo,
implica un unico scopo, che è di tipo pratico: conoscere il risultato;
dopo di che proibiamo loro di usare la calcolatrice, che gli adulti,
orgogliosi del progresso legato alla automazione, si vantano di avere
inventano proprio per eseguire i calcoli; e come se non bastasse alla fine
rendiamo evidente ai bambini che la conoscenza pratica del risultato in
realtà non serve ad alcuno né ad alcunché. Credo che ciò consolidi l'idea
della scuola come invenzione del sadismo degli adulti. Proviamo invece a
lasciare ai bambini la calcolatrice e chiediamo loro di trovare il valore di
x scrivendo 156 : x = 12. In questo caso il bambino viene messo esplicitamente,
e quindi più onestamente di fronte a un problema matematico. Il bambino
scopre che la calcolatrice non può sostituire la sua intelligenza e che anzi
da questa dipende la possibilità stessa di usare quella. Ciò che richiede
questo banale problema è una riflessione e una operatività sulla struttura
che hanno un valore generale e una utilità strumentale, al di là della conoscenza
del risultato. Ma non basta:
semplicemente spostando la x si è anche fatto un passo verso un più corretto
rapporto tra teoria e realtà, tra la matematica e le sue applicazioni. Le
situazioni problematiche che la realtà propone e che richiedono l'uso di
strumenti matematici, non sono quasi mai del tipo "calcola il
risultato" quanto piuttosto si presentano come ricerche di un dato
mancante, in cui il primo passo è l'individuazione dell’isomorfismo con una
struttura matematica e il secondo appunto la manipolazione della struttura
per rendere calcolabile il dato. Fare matematica
significa essenzialmente rappresentare mediante simboli operazioni mentali
sugli oggetti o su altre operazioni, e poi operare sui simboli anticipando a
un primo livello i risultati delle operazioni concrete per arrivare
addirittura a prefigurare nuove realtà. L'educazione matematica
deve rispettare lo sviluppo (storico e ontogenetico) del pensiero: deve perciò
tenere presenti almeno tre direttrici fondamentali: attivare l'operatività
del pensiero, mantenere la consapevolezza del rapporto problema-teoria-applicazione,
rispettare la gradualità dello sviluppo a partire dalla concretezza del pensiero
infantile. In questa direzione il
computer come automa programmabile mi sembra promettere molto di più che come
macchina da calcolo sofisticata. SOLTANTO CALCOLATORI? L'elaborazione
automatica delle informazioni richiede sistemi formali di rappresentazione,
il che la pone nell’ambito del pensiero matematico; ma diversamente dalla matematica
essa molto esplicitamente riceve la sua legittimazione da una precisa committenza
sociale: essa esiste ed evolve in quanto usata per risolvere problemi e ciò
garantisce più facilmente un coretto rapporto con la realtà. Da qui
l'importanza dell’informatica nell’educazione matematica come insieme di
metodi per la formulazione di conoscenze in termini di struttura informativa
e operazionale (operatori/oggetti) per organizzare il processo che porta alla
soluzione, dalla individuazione di strategie, alla formalizzazione di tali
strategie in procedure eseguibili, alla definizione delle condizioni di
eseguibilità, alla codificazione in linguaggi non ambigui. E dal momento che il
computer è una macchina che funziona su principi informatici, utilizzare software
che in qualche modo programma la macchina vuol dire entrare in contatto con
quei principi. Se matematica è rappresentazione di operazioni mentali (Piaget), LOGO è uno specchio per la mente. La
"naturalità" di LOGO nel senso della vicinanza dei suoi operatori a
quelli che agiscono nel pensiero umano può essere usata per aiutare i bambini
nella comprensione dei concetti, attraverso l'analisi dei processi. Nello
stesso tempo la costruttività di LOGO come
linguaggio di programmazione consente all’insegnante di costruire ambienti
graduando il livello di accesso dei bambini: operatori troppo complessi nella
loro struttura interna verranno costruiti dall’insegnante e usati come tali
dai bambini: altri più accessibili verranno presentati come procedure da
smontare, modificare, costruire. Un esempio in questo
senso viene dalla realizzazione con LOGO di semplici "macchine di Ashby", in cui con procedure interattive si dà modo al ragazzo di scegliere dei valori di
ingresso, ad esempio i numeri 1 2 7 10, e di confrontarli con i rispettivi
valori d'uscita, rispettivamente nell’esempio 2 4 14 20. Al ragazzo viene
chiesto di prevedere l'uscita corrispondente a una certa entrata e quindi, in
caso di successo, di esplicitare la sua ipotesi sul "funzionamento
interno" della macchina, cioè sull’operatore applicato (x 2). Accedendo
alla memoria di LOGO si può verificare la effettiva strutturazione della procedura
TRASFORMA. Qui il ragazzo trova
una istruzione del tipo ASSEGNA "USCITA :INGRESSO x 2. La conoscenza della
sintassi lo aiuterà a decodificare l'istruzione, a verificarne la corrispondenza
con l'ipotesi formulata, a modificare l'operatore per ottenere una nuova
funzione da sottoporre a sua volta sotto forma di macchina misteriosa ai
compagni. Questo è solo il
livello delle "macchine banali", ma al ragazzo può accadere di ottenere
le seguenti coppie ingresso-uscita: (1;2) (2;6) (3;6) (4;12) (5;10). La
formulazione di una ipotesi lo porta a confronto con una struttura LOGO più
complessa: SE PARI? :INGRESSO ASSEGNA "USCITA :INGRESSO x 3 ALTRIMENTI
ASSEGNA "USCITA :INGRESSO x 2. Il passo successivo è
chiedere al ragazzo come costruirebbe lui ad esempio, volendo modificare la
macchina, la procedura MULTIPLODI3? :INGRESSO,
passando magari attraverso l'analisi della procedura PARI? :INGRESSO. Ciò che
succede è che il ragazzo è costretto ad esplicitare al livello massimo di
analisi quei concetti di pari e dispari o di multiplo (INTERO? :INGRESSO / 3
) che egli spesso conosce solo in modo estensivo (per accumulo di esempi: le
"tabelline") e non intensivo, e quindi non "matematizzato". Mi sembra che un lavoro
come questo sulle "macchine di Ashby" o
come, a un livello più complesso, quello sugli "automi booleani"
che modificano il proprio stato sulla base di funzioni binarie, abbiano un
alto contenuto educativo-matematico per due ragioni.
La prima è che stimolano una attività induttiva (dati gli elementi in
corrispondenza scoprire la relazione) che se non è tipica del pensiero
matematico "adulto" lo è di quello "nascente" a livello
di pensiero concreto. La seconda è che implicano una attività analitica che
porta a fondare sulla consapevolezza il possesso e l'utilizzo di concetti,
operazioni e strutture matematiche. |