Marcello Sala

TRA ABUSO E INTEGRAZIONE

-pubblicato in- 

ADULTITà n. 8 / 1998

Guerini e Associati

 

Ogni tanto anch'io, come milioni di altre persone, pago per farmi “emozionare”. Acquistando un biglietto ottengo che mi facciano ridere, meravigliare, spaventare, piangere, godere esteticamente, intenerire e così via, mettendo in gioco mille combinazioni e sfumature di sentimenti.

Il regista cinematografico è un tecnologo dei sentimenti, li sa provocare attraverso immagini e, soprattutto, suoni. Gli riconosco questa competenza e la utilizzo. Lui diventa per un paio d’ore padrone dei miei sentimenti, come un massaggiatore diventa padrone del mio corpo, e un terapeuta della mia psiche o della mia anima: in fondo non ci sono differenze nella struttura del rapporto, che è quella di un contratto.

Il contratto è quello che sancisce l’ingresso in uno spazio transizionale, in un'area potenziale, distinta dalla vita quotidiana, in cui le esperienze sono artificiali, perché intenzionali, guidate e protette, ma i vissuti sono veri perché spontanee sono le reazioni, le sensazioni, le emozioni, i pensieri suscitati. Dalla frequentazione di un tale spazio ci si attende un cambiamento, magari minimo e provvisorio, in meglio.

Il contratto prevede l’affidamento, con tutti i rischi di dipendenza che comporta; ma ciò che garantisce dall’essere in totale balia di un potere è per l’appunto il contratto, i limiti che definisce, la libera scelta che implica la consapevolezza, non tanto dei percorsi e delle strategie, quanto degli scopi, delle grandi linee di condotta, delle opzioni culturali cui si riferiscono, e soprattutto della natura stessa di questo spazio potenziale, distinta da quella dell’esperienza diffusa, della realtà quotidiana.

Ovviamente rimane un margine di rischio, ma se non ci fosse spazio per lo spiazzamento, l’imprevisto, non ci sarebbe neppure possibilità di cambiamento. Tuttavia non tutte le situazioni sono uguali, non tutti i contratti sono vantaggiosi o corretti.

SUSCITARE EMOZIONI

L’emozione è il primo moto del sentimento, reazione spontanea basata su circuiti nervosi e ormonali, inconscia in quanto biologica, eredità degli esseri viventi come fondamentale meccanismo adattativo. La sopravvivenza dei piccoli delle specie viventi più evolute è affidata a meccanismi di reazione automatica (istintuale ereditaria) delle madri, delle femmine o degli adulti in generale, ai loro segnali di malessere e di pericolo.

Anch'io probabilmente sono vivo grazie a questi circuiti di reazione naturali. Ciò non toglie che, quando mi accorgo che mi viene da piangere davanti alla TV o ascoltando la radio, e ciò non è provocato da una sublime opera artistica ma da una pubblicità, sono turbato e preoccupato. Tanto da volerne sapere di più e da condurre una piccola indagine. Quello che scopro è che sono sensibile e reagisco a combinazioni di suoni, non solo musicali, ma della voce umana, e a volte non riesco a distinguere quanto ciò che mi “commuove” sia da riferirsi al tono con cui viene detto qualcosa e quanto addirittura al che cosa viene detto; il che testimonierebbe della capacità dell'organismo umano di associare in reazioni riflesse stimoli legati al significato, e che quindi implicano facoltà intellettive, a stimoli “naturali” sensoriali, attraverso la mediazione della percezione, che come sappiamo è qualcosa di determinato anche dall’apprendimento.

Tutto ciò mi dà la misura della potenza di questo meccanismo. Il turbamento sta nel vedere come esso venga sfruttato per condizionare le scelte delle persone, in un rapporto di potere che non sono disposto ad accettare, proprio perché come essere umano mi sento evoluto da una totale determinazione biologica verso una condizione in cui diventa pertinente la dimensione della responsabilità. Sappiamo che esiste tutta una branca della ricerca e dell’economia che si occupa degli effetti di stimoli subliminali sull'acquisto di prodotti commerciali. E le immagini che mi evoca la parola “commozione”, il “muovere insieme”, non sono solo quelli di un tenero, abbraccio; sono anche scenari non certo rassicuranti, dalle violenze negli stadi alle truppe armate che marciano al suono di qualche inno.

Anche la formazione è intenzionale creazione di situazioni artificiali come spazi transizionali. Questo di per sé pone nella dimensione della responsabilità. Scegliere di “suscitare emozioni” in un contesto formativo si pone in una dimensione diversa da quella della “naturalità”, dell’ineliminabilità delle emozioni in un processo di apprendimento.

L'anno scorso l’équipe che gestisce una scuola estiva di formazione per educatori di cui faccio parte ha discusso sull’opportunità di utilizzare, accanto alle classiche relazioni degli esperti, una “introduzione narrativa” alla tematica della scuola. In risposta è stato proposto un “video” con l’intenzione dichiarala di “provocare emozioni” in un contesto ritenuto troppo caratterizzalo da un registro intellettuale. A me le due cose (introduzione narrativa e provocare emozioni) non sono apparse affatto coincidenti.

Quel “provocare emozioni” (il termine, oltre che il contesto, denuncia chiaramente un'intenzionalità) mi sembrava rimandare più a un contesto terapeutico, garantito dunque da un setting capace di contenere e di rielaborare le reazioni dei partecipanti, diverso dalla situazione di ascolto e di comunicazione unidirezionale tipiche di una assemblea plenaria introduttiva di un corso. Ma, anche nel caso di un setting che desse tali garanzie, mi sarebbe rimasto comunque il problema di trovare un senso “formativo” per questa provocazione di sentimenti.

L’uso del video venne infine approvato essenzialmente sulla base della considerazione che era opportuno iniziare un corso dedicato a “vissuti e saperi nei percorsi formativi” con una comunicazione non soltanto di saperi a livello verbale, ma anche di vissuti attraverso il linguaggio cinematografico.

In verità i vissuti messi in gioco erano quelli degli spettatori, innescati dalle emozioni suscitate dalle scelte linguistiche attraverso cui il regista rappresenta i vissuti dei personaggi. La situazione dunque è complessa.

O forse confusa, visto che, in una presentazione scritta del video in questione, riferendosi alle sequenze che mostrano lavori di psicomotricità svolti con bambini piccoli, collocate prima e dopo altre sequenze ricavate da film noti, si legge: “La scelta della collocazione delle sequenze del nido, a inizio e fine video, è un richiamo alla realtà, dopo le immagini 'irreali' dei film”. Che ci sia una sostanziale dicotomia in termini di realtà/irrealtà tra un montaggio di immagini registrate in una situazione di setting educativo e un montaggio di immagini “girate” su un set cinematografico è già smentito dalla sovrapposizione alle prime di una colonna sonora musicale, particolarmente “accattivante”. Forse tra l’accadere reale e l’osservazione degli spettatori c’è nei due casi un diverso accumulo di livelli di rappresentazione e di interpretazione, di passaggi comunicativi, ma la reazione emotiva reale qui e ora dello spettatore è indotta in entrambi i casi da una situazione intenzionalmente artificiale.

L’intenzionalità è una caratteristica costitutiva della formazione, ma la domanda è: quale intenzione, e quale relazione con il contesto?

UN VIDEO E QUALCHE “LATENZA” [1]

Spesso l’intenzione di un regista resta ignota ed è oggetto delle interpretazioni e discussioni degli spettatori. Nel caso del video in questione una valutazione era più facile, perché anche chi come me è analfabeta rispetto al linguaggio cinematografico aveva a disposizione un elemento fondamentale come le scelte del montaggio: trattandosi di un collage di spezzoni di film noti, si poteva attribuire un significato alla scelta dei film e alla scelta delle sequenze all’interno del film.

La regista del video (d’ora in poi indicherò con questo termine la persona che ha confezionato il montaggio degli spezzoni di film) oltretutto aveva dichiarato i suoi criteri in uno scritto. Ma sono le scelte materialmente operate, messe in relazione a questo scritto, a costituire un testo da interpretare nei suoi aspetti latenti rispetto all'offerta formativa di cui il video ha fatto parte.

Nello scritto si legge: “Dal film Anna dei miracoli ho ripreso sequenze che rinviano al rapporto tra segni e significati: il linguaggio dei sordomuti come gesto inizialmente 'vuoto' di significato sino alla 'comprensione' del suo valore simbolico (vi è qui un riferimento forte alla professione di insegnante come di chi sa passare competenze simboliche). Ho intitolato infatti la sequenza 'Che cos'è una maestra?’”. Come si vede viene sottolineato l’aspetto cognitivo. Del film sono state mostrate alcune sequenze collocate attorno al climax drammatico della vicenda (impotenza di fronte all’handicap, frustrazione, e crescente sofferenza nella relazione stessa) e al suo scioglimento (il titolo del film è significativo) con un evento chiave che sblocca la comunicazione.

Chi mostra in un corso di formazione per educatori un film dedicato a una vicenda formativa non può non essere consapevole delle dinamiche identificatone che si mettono in atto; d'altra parte il “lieto fine” nella rappresentazione di una vicenda centrata sulla difficoltà di per sé ha un significato; dunque è ancor più significativo inserirlo in una selezione di pochi minuti. Con ciò non sto attirando l'attenzione sull'irrealtà del lieto fine: non c’è nessuna ragione per non credere in un esito positivo. Quello che mi interessa qui è l’evidente significato consolatorio che il “lieto fine” assume una volta che sia divenuto non credibile il riferimento alla realtà. Dove l’elemento più evidente di irrealtà, oltre alla musica, è il tempo, che nel video era ancora più compresso rispetto at film. Chiunque abbia lavorato con bambini handicappati sa quanta pazienza ci vuole per riuscire a trovare sul lungo periodo quegli elementi di miglioramento che nella quotidianità vengono sommersi dal senso di frustrazione, spesso dalla disperazione (nel film originale c’è una interminabile sequenza di 8 minuti di scontro fisico tra l’educatrice e la bambina).

Un altro spezzone del video era tratto da Figli di un dio minore: “Ho ripreso una scena (il ballo fra lei, sorda, e lui) che accenna al sapere silenzioso del corpo (so quello che il mio corpo sente ... )”. Anche qui la regista del video dichiara un'intenzione legata al sapere, ma poi incorre in quello che chiamerei un lapsus. Net film la scena in cui, in una discoteca, lei, osservata da lui, segue la musica con l’olfatto (è questo il “sapere silenzioso del corpo” di cui si parla) termina con la fine del brano musicale e ne inizia un'altra in cui lui balla con lei: è una classica scena d’amore, la prima in cui nel film questo legame tra i due protagonisti (sicuramente da annoverare tra i “belli” dello schermo) diventa manifesto. È evidente che si tratta di un'altra scena e che la nuova situazione non rientra più nell'indicazione che la nostra regista ha dato nel suo scritto. Mi chiedo dunque quale funzione avesse nel video, tenendo conto che esso era stato montato sotto una forte pressione relativa al contenimento della sua durata.

Uno spezzone tratto dal film L’enigma di Kaspar Hauser viene definito “un succulento e divertente duetto tra il professore di logica che, per risolvere un problema, si basa sul principio di deduzione, e Kaspar che fa riferimento invece all’osservazione e alla descrizione della realtà”. Quell' “invece” coglie l’evidente chiave di contrapposizione con cui il regista del film propone l’interazione tra i tre personaggi (c'è anche la donna che si è presa cura di Kaspar): da una parte la saccenteria del professore, dall'altra l'ingenuità‑saggezza di Kaspar e la bonomia della donna. L’enfasi caricaturale del personaggio del professore non può che suscitare antipatia e quindi, essendo la situazione quella di uno scontro tra i due, convogliare la simpatia dello spettatore su Kaspar, cioè, conclude la regista del nostro video, su un sapere concreto contrapposto a uno astratto.

Che la superiorità di Kaspar sia frutto di una “manipolazione” del regista, e si presti quindi a interpretazioni “ideologiche”, è testimoniato dal fatto che sfugge agli spettatori che Kaspar ha torto. Dal punto di vista dei saperi, se si assume la specificità del problema in oggetto, che è un classico problema di logica, la risposta di Kaspar, che viene vissuta dallo spettatore come meritato ridimensionamento della saccenteria dell'avversario, non è pertinente. Ma è certo pertinente da un punto di vista relazionale e affettivo, e su questo gioca il regista.

Abbiamo dunque, a fronte di dichiarazioni di intenti che mettono in rilievo l’aspetto cognitivo, un messaggio consolatorio precisamente indirizzato a un pubblico di educatori, una gratuita digressione sull’amore romantico, un pronunciamento contro il sapere astratto razionale in una presentazione di un Corso su “vissuti e saperi”, il tutto espresso nel linguaggio cinematografico.

VIRTUALI

Vorrei soffermarmi un momento su questa specificità. Al cinema, e in particolare alla fiction, è riconosciuta non soltanto la capacità, ma la funzione, direi “strutturale”, di suscitare sentimenti. Non è certo per il loro contenuto informativo, né per loro valore artistico, che Via col vento o Titanic sono stati visti e rivisti da decine di milioni di persone. Naturalmente esistono film che fanno pensare. o che restituiscono, con il linguaggio aperto dell'incertezza, allo spettatore una elaborazione delle proprie reazioni; ma si tratta quasi sempre di film “d’autore” secondo una caratterizzazione, anche formale, che li distingue nei circuiti di fruizione da quelli commerciali.

Credo che molti libri siano stati scritti per individuare il significato sociale e psicologico che la funzione “emozionante”, di “agitazione dei sentimenti”, del cinema riveste nella società moderna, non solo occidentale. Ciò non toglie che un film, o una sequenza inserita in un particolare contesto, possa essere funzionale agli scopi, divenire organico alle dinamiche specifiche, che caratterizzano quel contesto: già è sufficiente fare un “cineforum” perché cambi la fruizione di un film. E per l’appunto, soltanto certi film vengono inseriti nei cineforum, e soltanto certe persone non fuggono dopo la proiezione.

Quello che è decisivo in questi casi per sfuggire alla forza comunicativa intrinseca del linguaggio cinematografico è la consapevolezza del contesto “diverso” che lo contiene. Questo è vero anche in un senso più specifico che rimanda alla problematica del “virtuale”.

Domenico Parisi [2] sostiene che “in ogni interazione con i media, vecchi e nuovi, i nostri sensi e le nostre azioni interagiscono con una zona di artificiale circondata da una zona di reale. L’interazione segue leggi diverse nei due casi e questa diversità mantiene la separazione, e la consapevolezza della separazione. La realtà virtuale tende invece a prendere tutti i nostri sensi e tutte le nostre azioni, a collegarli secondo le sue leggi al livello di immediatezza tipico dei funzionamenti senso‑motori. Per questo la realtà virtuale può diventare indistinguibile dalla realtà. [...] la realtà virtuale può farci interagire con una realtà che segue leggi diverse, in cui un'azione ha un effetto sensoriale diverso da quello che ha nella realtà reale.”

Parisi distingue, sulla base dell'interattività, la “realtà virtuale” propriamente detta dai media tradizionali come il cinema, che hanno creato soltanto “quadri sensoriali artificiali che possiamo contemplare […] Da questi media riceviamo stimoli, ma, quando si tratta di agire, agiamo sulla realtà reale”. Ma Parisi si sta occupando di cognizione e azione; se ci spostassimo sul piano emotivo, la distinzione sparirebbe, perché la reazione allo stimolo agisce già sulla “realtà interna” dello spettatore. Se sostituiamo nel discorso di Parisi ad “azioni” il termine “emozioni”, ecco che il pericolo di non distinguere la realtà virtuale dalla realtà reale diventa qualcosa che ben conosciamo, che ritroviamo negli studi di psicologi e sociologi quando, soprattutto rispetto a soggetti giovani, si denuncia il ruolo dell'esposizione alla fiction nei comportamenti devianti.

Come nel caso della TV la distinzione tra la realtà dentro lo schermo e la realtà fuori dallo schermo dipende dalla possibilità di percepire la scatola del televisore, possibilità che viene eliminata nei dispositivi a “immersione totale” della “realtà artificiale”, così la possibilità di non entrare in un circuito interattivo che confonda la realtà del film con quella in cui viviamo dipende dalla distinzione dei livelli di realtà (il riferimento qui è a Bateson e alla sua elaborazione della “teoria dei tipi logici”) che è consentita dalla percezione della “cornice”, di un contesto che contiene semanticamente la realtà del film (ad esempio una discussione su).

Suscitare emozioni dentro una non chiarezza del contesto di significato e senza che i soggetti possano costruirselo elaborandole in maniera consapevole è un “abuso sentimentale”: significa aprire uno spazio affettivo che può essere ambiguamente agìto, in una relazione asimmetrica di affidamento come quella che si realizza in un contesto formativo, da significati latenti.

L’ERRORE DI CARTESIO

Con questo sono tornato al nostro video, per chiedermi quale significato dunque assumano la presenza di un lieto fine di tipo “miracolistico”, di una bella scena d'amore, di un pronunciamento contro il sapere astratto razionale. È importante, nel rispondere, considerare il contesto in cui il video è stato presentato, cioè l'introduzione a una iniziativa formativa la cui tematica è “vissuti e saperi nei percorsi formativi”, e il contesto in cui è nato, ovvero la discussione all’interno dell'équipe di formatori, in maggioranza operatori scolastici, che progettava l’iniziativa.

Ciò che è in questione, mi sembra, e che viene non solo affermato, ma agito, è il primato dei sentimenti nei confronti della razionalità, e, all’interno di questo, la forza dei buoni sentimenti. E l’esigenza di riaffermarlo, anche correndo il rischio di sedurre, di procurare benessere senza quello “spiazzamento” che è il motore dei processi formativi, di non sciogliere l’illusione dopo averla creata, di non recuperare la regressione indotta, nasce, io credo, dalla convinzione che la scuola, e di conseguenza anche la formazione degli insegnanti, non dia spazio ai sentimenti.

Mi pare che qui ci sia un grande equivoco. Chi combatte la sua battaglia contro una eccessiva intellettualizzazione della relazione educativa è anche chi sostiene che non esiste esperienza che non contenga un vissuto emotivo e affettivo; ma allora che senso ha dire che nell’esperienza scolastica non c'è spazio per i sentimenti? Quello che si vuol dire è che non ci sono i sentimenti “buoni”? oppure si deve intendere che i sentimenti, che la materialità dell’esperienza suscita in modo ineliminabile, non trovano spazio di elaborazione affettiva e cognitiva esplicita nella scuola?

Ma una risposta che riaffermi il primato dei sentimenti contro quello della ragione, invece di svelare quanto le emozioni siano costitutive della ragione perché permettono di assegnare valori differenti a opzioni cognitive differenti sul piano cognitivo, quanto in sostanza il pensare sia conseguenza e non causa dell’essere e del vivere, non fa che riprodurre l’errore di Cartesio [3], la premessa da cui quel primato della razionalità si è formato e cioè la separazione tra corpo e mente, fra emozioni e cognizioni.

Quello della scuola non è un problema di negazione dell'affettività. Mai come oggi infatti tanto spazio è stato dato alle problematiche affettive. Tradizionale patrimonio della cultura delle scuole materne ed elementari, oggi sono fortemente presenti nella vita delle scuole secondarie. Il moltiplicarsi di progetti e corsi sulla “prevenzione del rischio”, di figure come i “referenti alla salute”, di presenze di consulenti psicologici sta a dimostrarlo.

Oggi agli psicologi sempre più spesso sono affidate non soltanto le patologie individuali, ma la gestione diretta con i ragazzi delle problematiche affettive “normali”. E lo psicologo rischia di essere il guru da cui ci si aspetta un intervento miracoloso quando non, per pura disperazione, anche solo il sollievo di un paio d’ore in meno da passare con i ragazzi.

Ma accade anche che l’ingresso a scuola di chi fino a poco tempo fa per gli insegnanti era una specie di boss saccente chiuso nel suo studio della ASL induca gli insegnanti stessi a un atteggiamento di sfida (“prova tu adesso cosa vuol dire stare in classe!”). Sfida suicida, perché è molto probabile che lo psicologo riesca a instaurare un rapporto positivo con gli studenti, proprio perché per professione si sa muovere là dove sta il problema, sul terreno dell'affettività e delle relazioni, ma soprattutto perché gode del grande vantaggio di non essere il loro insegnante. Non è difficile prevedere che l’insegnante, al suo rientro in classe, si troverà peggio di prima, o perché ha difficoltà a instaurare un rapporto simile, e allora il confronto giocherà a suo sfavore, oppure, in caso contrario, perché il suo tentativo di utilizzare questa facilità di rapporto anche per insegnare la matematica o per valutarli sarà vissuto dagli studenti come “tradimento”.

Se l’incontro con un bravo psicologo può essere positivo per i ragazzi, è più difficile che il suo intervento diretto in classe lo sia per l’insegnante. L’errore di Cartesio è quello che genera i due estremi opposti e complementari: da una parte un insegnante che si disinteressa della relazione, ritenendosi solo esperto disciplinare o tecnologo della didattica, come se l’apprendimento non fosse anche un problema affettivo; dall’altra un insegnante che si fa carico della relazione in maniera esclusiva, oppure una figura di professionista dei sentimenti che cura l’affettività o la relazione in sé. I quali, entrambi, non assumono la specificità del contesto scolastico disperdendone le potenzialità specifiche, l’uno perché perde i limiti e il senso della relazione educativa l’altro perché estraneo a una dimensione strutturale della scuola, che l’apprendimento di saperi.

La questione è quella dell’integrazione di una sfera cognitiva e di una sfera affettiva ancora separate (l’uso della parola “sfera”, nella sua chiusa perfezione, mi pare significativa). Un insegnante di matematica si chiede mai quali sentimenti susciti l’apprendimento della matematica? sentimenti specifici e diversi da quelli legati alle situazioni di apprendimento della letteratura o di una disciplina tecnica Su questo nessuno psicologo avrebbe risposte migliori delle sue, se si ponesse la domanda.

Una cosa che mi ha sempre colpito leggendo libri sull'affettività legata alla formazione è che gli psicologi parlano di “dolore mentale dell'apprendimento”[4]. Ci penso quando guardo il divertimento, la soddisfazione, l’investimento di energie positive, da parte di bambini piccoli che imparano spontaneamente giocando, anche da soli, a leggere, a scrivere, a far di conto, o anche la geografia. Mi capita anche di guardare insegnanti che riproducono questa situazione a scuola e mi dico che forse nessuno è competente più di loro rispetto a un sentimento chiave nell’educazione: il piacere dell’apprendimento.

 

 



[1]   Do al termine il significato attribuitogli da Riccardo Massa nella “clinica della formazione”.

[2]  D. Parisi, Realtà arlificiale, in Golem, n. 5‑6, 1992.

[3]  A. R. Damasio, L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995.

 

[4]  P. Mottana, Formazione e affetti, Armando 1993.