Ogni tanto anch'io, come milioni di altre persone, pago per
farmi “emozionare”. Acquistando un biglietto ottengo che mi facciano ridere,
meravigliare, spaventare, piangere, godere esteticamente, intenerire e così
via, mettendo in gioco mille combinazioni e sfumature di sentimenti. Il
regista cinematografico è un tecnologo dei sentimenti, li sa provocare
attraverso immagini e, soprattutto, suoni. Gli riconosco questa competenza e
la utilizzo. Lui diventa per un paio d’ore padrone dei miei sentimenti, come
un massaggiatore diventa padrone del mio corpo, e un terapeuta della mia
psiche o della mia anima: in fondo non ci sono differenze nella struttura del
rapporto, che è quella di un contratto. Il
contratto è quello che sancisce l’ingresso in uno spazio transizionale,
in un'area potenziale, distinta dalla vita quotidiana, in cui le esperienze
sono artificiali, perché intenzionali, guidate e protette, ma i vissuti sono
veri perché spontanee sono le reazioni, le sensazioni, le emozioni, i
pensieri suscitati. Dalla frequentazione di un tale spazio ci si attende un
cambiamento, magari minimo e provvisorio, in meglio. Il
contratto prevede l’affidamento, con tutti i rischi di dipendenza che
comporta; ma ciò che garantisce dall’essere in totale balia di un potere è
per l’appunto il contratto, i limiti che definisce, la libera scelta che
implica la consapevolezza, non tanto dei percorsi e delle strategie, quanto
degli scopi, delle grandi linee di condotta, delle opzioni culturali cui si
riferiscono, e soprattutto della natura stessa di questo spazio potenziale,
distinta da quella dell’esperienza diffusa, della realtà quotidiana. Ovviamente
rimane un margine di rischio, ma se non ci fosse spazio per lo spiazzamento,
l’imprevisto, non ci sarebbe neppure possibilità di cambiamento. Tuttavia non
tutte le situazioni sono uguali, non tutti i contratti sono vantaggiosi o
corretti. SUSCITARE
EMOZIONI L’emozione
è il primo moto del sentimento, reazione spontanea basata su circuiti nervosi
e ormonali, inconscia in quanto biologica, eredità degli esseri viventi come
fondamentale meccanismo adattativo. La sopravvivenza dei piccoli delle specie
viventi più evolute è affidata a meccanismi di reazione automatica
(istintuale ereditaria) delle madri, delle femmine o degli adulti in
generale, ai loro segnali di malessere e di pericolo. Anch'io
probabilmente sono vivo grazie a questi circuiti di reazione naturali. Ciò
non toglie che, quando mi accorgo che mi viene da piangere davanti alla TV o
ascoltando la radio, e ciò non è provocato da una sublime opera artistica ma
da una pubblicità, sono turbato e preoccupato. Tanto da volerne sapere di più
e da condurre una piccola indagine. Quello che scopro è che sono sensibile e
reagisco a combinazioni di suoni, non solo musicali, ma della voce umana, e a
volte non riesco a distinguere quanto ciò che mi “commuove” sia da riferirsi
al tono con cui viene detto
qualcosa e quanto addirittura al che
cosa viene detto; il che testimonierebbe della capacità dell'organismo
umano di associare in reazioni riflesse stimoli legati al significato, e che
quindi implicano facoltà intellettive, a stimoli “naturali” sensoriali,
attraverso la mediazione della percezione, che come sappiamo è qualcosa di determinato
anche dall’apprendimento. Tutto
ciò mi dà la misura della potenza di questo meccanismo. Il turbamento sta nel
vedere come esso venga sfruttato per condizionare le scelte delle persone, in
un rapporto di potere che non sono disposto ad accettare, proprio perché come
essere umano mi sento evoluto da una totale determinazione biologica verso
una condizione in cui diventa pertinente la dimensione della responsabilità.
Sappiamo che esiste tutta una branca della ricerca e dell’economia che si
occupa degli effetti di stimoli subliminali sull'acquisto di prodotti
commerciali. E le immagini che mi evoca la parola “commozione”, il “muovere insieme”,
non sono solo quelli di un tenero, abbraccio; sono anche scenari non certo rassicuranti,
dalle violenze negli stadi alle truppe armate che marciano al suono di
qualche inno. Anche
la formazione è intenzionale creazione di situazioni artificiali come spazi transizionali. Questo di per sé pone nella dimensione
della responsabilità. Scegliere di “suscitare emozioni” in un contesto
formativo si pone in una dimensione diversa da quella della “naturalità”,
dell’ineliminabilità delle emozioni in un processo
di apprendimento. L'anno
scorso l’équipe che gestisce una scuola estiva di formazione per educatori di
cui faccio parte ha discusso sull’opportunità di utilizzare, accanto alle
classiche relazioni degli esperti, una “introduzione narrativa” alla tematica
della scuola. In risposta è stato proposto un “video” con l’intenzione
dichiarala di “provocare emozioni” in un contesto ritenuto troppo
caratterizzalo da un registro intellettuale. A me le due cose (introduzione
narrativa e provocare emozioni) non sono apparse affatto coincidenti. Quel
“provocare emozioni” (il termine, oltre che il contesto, denuncia chiaramente
un'intenzionalità) mi sembrava rimandare più a un contesto terapeutico,
garantito dunque da un setting capace di contenere e di rielaborare
le reazioni dei partecipanti, diverso dalla situazione di ascolto e di
comunicazione unidirezionale tipiche di una assemblea plenaria introduttiva
di un corso. Ma, anche nel caso di un setting
che desse tali garanzie, mi sarebbe rimasto comunque il problema di trovare
un senso “formativo” per questa provocazione di sentimenti. L’uso
del video venne infine approvato essenzialmente sulla base della considerazione
che era opportuno iniziare un corso dedicato a “vissuti e saperi nei percorsi
formativi” con una comunicazione non soltanto di saperi a livello verbale, ma
anche di vissuti attraverso il linguaggio cinematografico. In
verità i vissuti messi in gioco erano quelli degli spettatori, innescati
dalle emozioni suscitate dalle scelte linguistiche attraverso cui il regista
rappresenta i vissuti dei personaggi. La situazione dunque è complessa. O
forse confusa, visto che, in una presentazione scritta del video in
questione, riferendosi alle sequenze che mostrano lavori di psicomotricità
svolti con bambini piccoli, collocate prima e dopo altre sequenze ricavate da
film noti, si legge: “La scelta della collocazione delle sequenze del
nido, a inizio e fine video, è un richiamo alla realtà, dopo le immagini
'irreali' dei film”. Che ci sia una sostanziale dicotomia in termini di realtà/irrealtà
tra un montaggio di immagini registrate in una situazione di setting educativo e un montaggio di immagini
“girate” su un set cinematografico
è già smentito dalla sovrapposizione alle prime di una colonna sonora
musicale, particolarmente “accattivante”. Forse tra l’accadere reale e
l’osservazione degli spettatori c’è nei due casi un diverso accumulo di
livelli di rappresentazione e di interpretazione, di passaggi comunicativi,
ma la reazione emotiva reale qui e ora dello
spettatore è indotta in entrambi i casi da una situazione intenzionalmente
artificiale. L’intenzionalità
è una caratteristica costitutiva della formazione, ma la domanda è: quale intenzione, e quale relazione
con il contesto? UN
VIDEO E QUALCHE “LATENZA” [1] Spesso
l’intenzione di un regista resta ignota ed è oggetto delle interpretazioni e
discussioni degli spettatori. Nel caso del video in questione una valutazione
era più facile, perché anche chi come me è analfabeta rispetto al linguaggio
cinematografico aveva a disposizione un elemento fondamentale come le scelte
del montaggio: trattandosi di un collage di spezzoni di film noti, si poteva
attribuire un significato alla scelta dei film e alla scelta delle sequenze
all’interno del film. La regista del video (d’ora in poi
indicherò con questo termine la persona che ha confezionato il montaggio
degli spezzoni di film) oltretutto aveva dichiarato i suoi criteri in uno
scritto. Ma sono le scelte materialmente operate, messe in relazione a questo
scritto, a costituire un testo da interpretare nei suoi aspetti latenti
rispetto all'offerta formativa di cui il video ha fatto parte. Nello
scritto si legge: “Dal film Anna dei miracoli ho ripreso sequenze
che rinviano al rapporto tra segni e significati: il linguaggio dei sordomuti
come gesto inizialmente 'vuoto' di significato sino alla 'comprensione' del
suo valore simbolico (vi è qui un riferimento forte alla professione di
insegnante come di chi sa passare competenze simboliche). Ho intitolato
infatti la sequenza 'Che cos'è una maestra?’”. Come si vede viene
sottolineato l’aspetto cognitivo. Del film sono state mostrate alcune
sequenze collocate attorno al climax drammatico della vicenda (impotenza di
fronte all’handicap, frustrazione, e crescente sofferenza nella relazione
stessa) e al suo scioglimento (il titolo del film è significativo) con un
evento chiave che sblocca la comunicazione. Chi mostra in un corso di
formazione per educatori un film dedicato a una vicenda formativa non può non
essere consapevole delle dinamiche identificatone che si mettono in atto;
d'altra parte il “lieto fine” nella rappresentazione di una vicenda centrata
sulla difficoltà di per sé ha un significato; dunque è ancor più significativo
inserirlo in una selezione di pochi minuti. Con ciò non sto attirando
l'attenzione sull'irrealtà del lieto fine: non c’è nessuna ragione per non
credere in un esito positivo. Quello che mi interessa qui è l’evidente
significato consolatorio che il “lieto fine” assume una volta che sia
divenuto non credibile il riferimento alla realtà. Dove l’elemento più
evidente di irrealtà, oltre alla musica, è il tempo, che nel video era ancora
più compresso rispetto at film. Chiunque abbia lavorato con bambini
handicappati sa quanta pazienza ci vuole per riuscire a trovare sul lungo
periodo quegli elementi di miglioramento che nella quotidianità vengono
sommersi dal senso di frustrazione, spesso dalla disperazione (nel film originale
c’è una interminabile sequenza di 8 minuti di scontro fisico tra l’educatrice
e la bambina). Un
altro spezzone del video era tratto da Figli
di un dio minore: “Ho
ripreso una scena (il ballo fra lei, sorda, e lui) che accenna al sapere
silenzioso del corpo (so quello che il mio corpo sente ... )”. Anche qui
la regista del video dichiara un'intenzione legata al sapere, ma poi incorre
in quello che chiamerei un lapsus. Net film la scena in cui, in una discoteca,
lei, osservata da lui, segue la musica
con l’olfatto (è questo il “sapere silenzioso del corpo” di cui si parla) termina
con la fine del brano musicale e ne inizia un'altra in cui lui balla con lei: è una classica scena d’amore, la prima in cui nel film questo legame
tra i due protagonisti (sicuramente da annoverare tra i “belli” dello
schermo) diventa manifesto. È evidente che si tratta di un'altra scena e che
la nuova situazione non rientra più nell'indicazione che la nostra regista ha
dato nel suo scritto. Mi chiedo dunque quale funzione avesse nel video,
tenendo conto che esso era stato montato sotto una forte pressione relativa
al contenimento della sua durata. Uno
spezzone tratto dal film L’enigma di Kaspar Hauser viene definito
“un succulento e divertente duetto tra il professore di logica che, per
risolvere un problema, si basa sul principio di deduzione, e Kaspar che fa riferimento invece all’osservazione e alla
descrizione della realtà”. Quell' “invece” coglie l’evidente chiave di contrapposizione
con cui il regista del film propone l’interazione tra i tre personaggi (c'è
anche la donna che si è presa cura di Kaspar): da
una parte la saccenteria del professore, dall'altra l'ingenuità‑saggezza
di Kaspar e la bonomia della donna. L’enfasi caricaturale
del personaggio del professore non può che suscitare antipatia e quindi, essendo
la situazione quella di uno scontro tra i due, convogliare la simpatia dello
spettatore su Kaspar, cioè, conclude la regista del
nostro video, su un sapere concreto contrapposto a uno astratto. Che
la superiorità di Kaspar sia frutto di una
“manipolazione” del regista, e si presti quindi a interpretazioni
“ideologiche”, è testimoniato dal fatto che sfugge agli spettatori che Kaspar ha torto. Dal punto di vista dei saperi, se si
assume la specificità del problema in oggetto, che è un classico problema di
logica, la risposta di Kaspar, che viene vissuta
dallo spettatore come meritato ridimensionamento della saccenteria dell'avversario,
non è pertinente. Ma è certo pertinente da un punto di vista relazionale e
affettivo, e su questo gioca il regista. Abbiamo dunque, a fronte di
dichiarazioni di intenti che mettono in rilievo l’aspetto cognitivo, un
messaggio consolatorio precisamente indirizzato a un pubblico di educatori,
una gratuita digressione sull’amore romantico, un pronunciamento contro il
sapere astratto razionale in una presentazione di un Corso su “vissuti e
saperi”, il tutto espresso nel linguaggio cinematografico. VIRTUALItà Vorrei
soffermarmi un momento su questa specificità. Al cinema, e in particolare
alla fiction, è riconosciuta non
soltanto la capacità, ma la funzione, direi “strutturale”, di suscitare
sentimenti. Non è certo per il loro contenuto informativo, né per loro valore
artistico, che Via col vento o Titanic sono stati visti e rivisti da
decine di milioni di persone. Naturalmente esistono film che fanno pensare. o
che restituiscono, con il linguaggio aperto dell'incertezza, allo spettatore
una elaborazione delle proprie reazioni; ma si tratta quasi sempre di film
“d’autore” secondo una caratterizzazione, anche formale, che li distingue nei
circuiti di fruizione da quelli commerciali. Credo
che molti libri siano stati scritti per individuare il significato sociale e
psicologico che la funzione “emozionante”, di “agitazione dei sentimenti”,
del cinema riveste nella società moderna, non solo occidentale. Ciò non
toglie che un film, o una sequenza inserita in un particolare contesto, possa
essere funzionale agli scopi, divenire organico alle dinamiche specifiche,
che caratterizzano quel contesto: già è sufficiente fare un “cineforum”
perché cambi la fruizione di un film. E per l’appunto, soltanto certi film vengono
inseriti nei cineforum, e soltanto certe persone non fuggono dopo la proiezione. Quello
che è decisivo in questi casi per sfuggire alla forza comunicativa intrinseca
del linguaggio cinematografico è la consapevolezza del contesto “diverso” che
lo contiene. Questo è vero anche in un senso più specifico che rimanda alla
problematica del “virtuale”. Domenico
Parisi [2]
sostiene che “in ogni interazione con i media, vecchi e nuovi, i nostri
sensi e le nostre azioni interagiscono con una zona di artificiale circondata
da una zona di reale. L’interazione segue leggi diverse nei due casi e questa
diversità mantiene la separazione, e la consapevolezza della separazione. La
realtà virtuale tende invece a prendere tutti i nostri sensi e tutte le
nostre azioni, a collegarli secondo le sue leggi al livello di immediatezza tipico
dei funzionamenti senso‑motori. Per questo la realtà virtuale può diventare
indistinguibile dalla realtà. [...] la realtà virtuale può farci interagire
con una realtà che segue leggi diverse, in cui un'azione ha un effetto
sensoriale diverso da quello che ha nella realtà reale.” Parisi
distingue, sulla base dell'interattività, la “realtà virtuale” propriamente
detta dai media tradizionali come il cinema, che hanno creato soltanto “quadri
sensoriali artificiali che possiamo contemplare […] Da questi media riceviamo
stimoli, ma, quando si tratta di agire, agiamo sulla realtà reale”. Ma
Parisi si sta occupando di cognizione e azione; se ci spostassimo sul piano
emotivo, la distinzione sparirebbe, perché la reazione allo stimolo agisce
già sulla “realtà interna” dello spettatore. Se sostituiamo nel discorso di
Parisi ad “azioni” il termine “emozioni”, ecco che il pericolo di non
distinguere la realtà virtuale dalla realtà reale diventa qualcosa che ben
conosciamo, che ritroviamo negli studi di psicologi e sociologi quando,
soprattutto rispetto a soggetti giovani, si denuncia il ruolo dell'esposizione
alla fiction nei comportamenti
devianti. Come
nel caso della TV la distinzione tra la realtà dentro lo schermo e la realtà
fuori dallo schermo dipende dalla possibilità di percepire la scatola del
televisore, possibilità che viene eliminata nei dispositivi a “immersione
totale” della “realtà artificiale”, così la possibilità di non entrare in un
circuito interattivo che confonda la realtà del film con quella in cui
viviamo dipende dalla distinzione dei
livelli di realtà (il riferimento qui è a Bateson
e alla sua elaborazione della “teoria dei tipi logici”) che è consentita
dalla percezione della “cornice”, di un contesto che contiene semanticamente la realtà del film (ad esempio una
discussione su). Suscitare
emozioni dentro una non chiarezza del contesto di significato e senza che i
soggetti possano costruirselo elaborandole in maniera consapevole è un “abuso
sentimentale”: significa aprire uno spazio affettivo che può essere
ambiguamente agìto, in una relazione asimmetrica di
affidamento come quella che si realizza in un contesto formativo, da
significati latenti. L’ERRORE
DI CARTESIO Con questo sono tornato al nostro
video, per chiedermi quale significato dunque assumano la presenza di un
lieto fine di tipo “miracolistico”, di una bella scena d'amore, di un
pronunciamento contro il sapere astratto razionale. È importante, nel
rispondere, considerare il contesto in cui il video è stato presentato, cioè
l'introduzione a una iniziativa formativa la cui tematica è “vissuti e saperi
nei percorsi formativi”, e il contesto in cui è nato, ovvero la discussione
all’interno dell'équipe di formatori, in maggioranza operatori scolastici,
che progettava l’iniziativa. Ciò
che è in questione, mi sembra, e che viene non solo affermato, ma agito, è il primato dei sentimenti nei
confronti della razionalità, e, all’interno di questo, la forza dei buoni sentimenti. E l’esigenza di
riaffermarlo, anche correndo il rischio di sedurre, di procurare benessere
senza quello “spiazzamento” che è il motore dei processi formativi, di non
sciogliere l’illusione dopo averla creata, di non recuperare la regressione
indotta, nasce, io credo, dalla convinzione che la scuola, e di conseguenza
anche la formazione degli insegnanti, non dia spazio ai sentimenti. Mi
pare che qui ci sia un grande equivoco. Chi combatte la sua battaglia contro
una eccessiva intellettualizzazione della relazione
educativa è anche chi sostiene che non esiste esperienza che non contenga un
vissuto emotivo e affettivo; ma allora che senso ha dire che nell’esperienza
scolastica non c'è spazio per i sentimenti? Quello che si vuol dire è che non
ci sono i sentimenti “buoni”? oppure si deve intendere che i sentimenti, che
la materialità dell’esperienza suscita in modo ineliminabile, non trovano spazio di elaborazione affettiva
e cognitiva esplicita nella scuola? Ma
una risposta che riaffermi il primato dei sentimenti contro quello della ragione, invece di svelare quanto le emozioni
siano costitutive della ragione
perché permettono di assegnare valori differenti a opzioni cognitive
differenti sul piano cognitivo, quanto in sostanza il pensare sia conseguenza
e non causa dell’essere e del vivere, non fa che riprodurre l’errore di
Cartesio [3], la premessa da cui quel
primato della razionalità si è formato e cioè la separazione tra corpo e mente, fra emozioni e cognizioni. Quello
della scuola non è un problema di negazione dell'affettività. Mai come oggi
infatti tanto spazio è stato dato alle problematiche affettive. Tradizionale
patrimonio della cultura delle scuole materne ed elementari, oggi sono
fortemente presenti nella vita delle scuole secondarie. Il moltiplicarsi di
progetti e corsi sulla “prevenzione del rischio”, di figure come i “referenti
alla salute”, di presenze di consulenti psicologici sta a dimostrarlo. Oggi
agli psicologi sempre più spesso sono affidate non soltanto le patologie
individuali, ma la gestione diretta con i ragazzi delle problematiche
affettive “normali”. E lo psicologo rischia di essere il guru da cui ci si
aspetta un intervento miracoloso quando non, per pura disperazione, anche
solo il sollievo di un paio d’ore in meno da passare con i ragazzi. Ma
accade anche che l’ingresso a scuola di chi fino a poco tempo fa per gli
insegnanti era una specie di boss saccente chiuso nel suo studio della ASL
induca gli insegnanti stessi a un atteggiamento di sfida (“prova tu adesso
cosa vuol dire stare in classe!”). Sfida suicida, perché è molto probabile
che lo psicologo riesca a instaurare un rapporto positivo con gli studenti,
proprio perché per professione si sa muovere là dove sta il problema, sul terreno
dell'affettività e delle relazioni, ma soprattutto perché gode del grande
vantaggio di non essere il loro insegnante.
Non è difficile prevedere che l’insegnante, al suo rientro in classe, si
troverà peggio di prima, o perché ha difficoltà a instaurare un rapporto
simile, e allora il confronto giocherà a suo sfavore, oppure, in caso
contrario, perché il suo tentativo di utilizzare questa facilità di rapporto
anche per insegnare la matematica o per valutarli sarà vissuto dagli studenti
come “tradimento”. Se
l’incontro con un bravo psicologo può essere positivo per i ragazzi, è più
difficile che il suo intervento diretto in classe lo sia per l’insegnante.
L’errore di Cartesio è quello che genera i due estremi opposti e
complementari: da una parte un insegnante che si disinteressa della
relazione, ritenendosi solo esperto disciplinare o tecnologo della didattica,
come se l’apprendimento non fosse anche un problema affettivo; dall’altra un
insegnante che si fa carico della relazione in maniera esclusiva, oppure una
figura di professionista dei sentimenti che cura l’affettività o la relazione
in sé. I quali, entrambi, non assumono la specificità del contesto scolastico
disperdendone le potenzialità specifiche, l’uno perché perde i limiti e il
senso della relazione educativa l’altro perché estraneo a una dimensione strutturale
della scuola, che l’apprendimento di saperi. La
questione è quella dell’integrazione di una sfera cognitiva e di una sfera
affettiva ancora separate (l’uso della parola “sfera”, nella sua chiusa
perfezione, mi pare significativa). Un insegnante di matematica si chiede mai
quali sentimenti susciti l’apprendimento della
matematica? sentimenti
specifici e diversi da quelli legati alle situazioni di apprendimento della
letteratura o di una disciplina tecnica Su questo nessuno psicologo avrebbe
risposte migliori delle sue, se si ponesse la domanda. Una
cosa che mi ha sempre colpito leggendo libri sull'affettività legata alla
formazione è che gli psicologi parlano di “dolore mentale dell'apprendimento”[4]. Ci
penso quando guardo il divertimento, la soddisfazione, l’investimento di
energie positive, da parte di bambini piccoli che imparano spontaneamente
giocando, anche da soli, a leggere, a scrivere, a far di conto, o anche la
geografia. Mi capita anche di guardare insegnanti che riproducono questa situazione
a scuola e mi dico che forse nessuno è competente più di loro rispetto a un
sentimento chiave nell’educazione: il
piacere dell’apprendimento. |