Spesso
per ragioni professionali (faccio il formatore in area scientifica) mi
imbatto in esempi di “cattiva divulgazione” in contesti caratterizzati dalla
“buona intenzione” di promuovere la cultura scientifica, dalle grandi
manifestazioni che coinvolgono intere città alle pagine scientifiche dei
quotidiani. Quando esprimo le mie critiche, mi sento rispondere che comunque
si tratta di occasioni per avvicinare un vasto pubblico alla cultura scientifica. Intanto
diffido del termine “comunque”: è in contraddizione con il pensiero critico
che consiste invece nel valutare nel
merito, e che probabilmente è il portato di maggiore importanza dello spirito
scientifico alla cultura umana: “[...]
quella prospettiva di errori rettificati che caratterizza, a nostro avviso, il
pensiero scientifico” (Bachelard). La
cultura berlusconiana (la identifico così non perché Berlusconi l’abbia
inventata, ma perché l’ha portata all’apogeo prima diffondendola attraverso
la TV e poi ammettendola e praticandola anche nei contesti istituzionali) ha
promosso modalità di comunicazione in cui si fa di tutto per non entrare nel merito (a questo è
funzionale, ad esempio, la rissa sistematica nei dibattiti attorno a
qualsiasi tema di interesse sociale). Ed
è proprio nel merito della comunicazione scientifica, al di là della più
generale avversione al “comunque”, che la mia valutazione è negativa. Possiamo
collocare le origini dell’idea di “divulgazione scientifica” nel contesto
storico di un movimento che nasce nel tardo Ottocento e arriva fino agli anni
Sessanta del Novecento, legato ai successi del “progresso scientifico”, ma
anche sorretto prima dalla volontà di affermazione di strati sociali
emergenti, poi da quella di fornire strumenti di emancipazione culturale (la
lingua, il sapere), e quindi politica, alle classi subalterne. Nella
“divulgazione” il discorso scientifico va inevitabilmente soggetto a una
semplificazione e ormai le rivoluzioni epistemologiche del Novecento ci hanno
avvertiti del pericolo di utilizzare “mappe” troppo semplificate per
descrivere un “territorio” come quello della realtà che invece è complesso,
tanto più se comprende il vivente, tanto più se comprende la dimensione
sociale e la cultura umana. LA
COMUNICAZIONE SPETTACOLARE Ma
nel clima culturale in cui viviamo la semplificazione si colloca nel dominio
della spettacolarizzazione come tipica modalità della comunicazione di massa
e, se suscitare curiosità può essere un esito positivo, chi si occupa di
educazione non può non domandarsi che cosa fare della curiosità: “[…] soddisfacendo in modo immediato la
curiosità e moltiplicando le occasioni di risvegliarla, non si favorisce la
conoscenza scientifica ma la si intralcia. La conoscenza infatti viene
sostituita dall’ammirazione, e le idee dalle immagini.” (Bachelard). Alla spettacolarizzazione non sfuggono quelle
che una volta erano prestigiose istituzioni scientifiche, che si dedicano a
organizzare “eventi”, come portare un sommergibile in giro per la città, e
trascurano la formazione dei propri operatori. In
questo modo, dicono, si susciterebbe “comunque” interesse attorno alla
scienza: il crollo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche prova il
contrario e il fenomeno lo attribuisco allo scarto tra l’immaginazione che ci
si può fare attorno alla scienza attraverso la spettacolarizzazione e
l’impatto con la realtà del lavoro scientifico che si ha a partire dagli studi
e dai laboratori universitari. Per me (ma anche per Bachelard,
si parva
licet…) il senso di “facilità”, di familiarità” (falsa) non giova affatto
alla cultura scientifica: “[...] vedremo
istaurarsi un’era di facilità che priverà la scienza del senso del problema, che costituisce invece la nervatura del
progresso.” “Queste teorie primitive di fenomeni tanto complessi si
presentavano così come teorie facili, condizione questa indispensabile perché
fossero divertenti e interessassero il pubblico.” “L’immaginazione lavora
malgrado l’opposizione dell’esperienza. Non ci si separa dal meraviglioso,
quando gli si è dato credito”, ovvero
viene minato uno dei pilastri della scienza, il riferimento all’esperienza. Se
l’avvicinamento alla scienza appare un obiettivo condivisibile, l’eccessiva
“vicinanza” è un pericolo in termini pedagogici: mentre il passaggio dal “non
sapere di non sapere” al “sapere di non sapere” è la scintilla iniziale e il
motore della ricerca, il “credere di sapere” è ciò che la blocca. È
così che molti sanno (ripetere) che il DNA è una doppia elica (ma hanno
un’idea di cos’è un’elica?), ma non
si chiedono come si esplichi il ruolo funzionale del DNA nella costruzione e
nella organizzazione dell’organismo e si fanno privare, per ignoranza scientifica,
del diritto democratico a decidere su questioni importanti per la vita di
tutti, come è accaduto per il referendum sulla fecondazione assistita. LE
CATTIVE METAFORE Il
risultato dell’illusione di familiarità è il dilagare di metafore come “ce
l’abbiamo nel DNA”, che ha sostituito l’antica “ce l’abbiamo nel sangue”. Il
DNA è effettivamente un veicolo di ereditarietà mentre il sangue non lo è, ma
il “gioco linguistico” della metafora, che ha un senso culturale e sociale,
consiste nel trasferire su un oggetto più familiare dell’esperienza un’idea
più astratta per meglio comprenderla; nel caso del DNA invece si trasferisce
su un oggetto del tutto ignoto, che appartiene al mito (della scienza) e non alla conoscenza scientifica, un’idea
già consolidata, su cui si ha un investimento affettivo-ideologico,
per rafforzarla con l’autorità di cui gode la scienza. Perciò “ce l’abbiamo
nel sangue” dice di un legame con la tradizione radicato nel corpo stesso,
mentre “ce l’abbiamo nel DNA” parla di non responsabilità di ciò che siamo, e
quindi di non investimento sulle possibilità dell’apprendimento, del
cambiamento, e lo fa proprio a partire da una rinuncia a rendersi
responsabili della propria conoscenza. Questa
cattiva metafora agisce nella società perché si basa su un meccanismo culturale
che consiste nel dare per scontato e nel far diventare fonte di ogni
spiegazione ciò che si dovrebbe invece spiegare; è appunto il caso del DNA,
forse l’oggetto più nominato di cui
meno si sa (pochissimi sanno di che cosa è acronimo il nome; tra
questi quanti hanno un’idea di che cosa è un acido, per esempio?) Il
paradosso dei nostri tempi è che questa eccessiva facilità non ha eliminato,
ma anzi convive allegramente, negli stessi luoghi della divulgazione
scientifica, con quello che sembra l’errore opposto. LA
FORMAZIONE DEL PERSONALE L’uso
di un linguaggio “difficile”, con uso di termini specialistici, non si
riscontra solo nelle conferenze di alto livello, in cui è garanzia di rigore
e sarebbe accettabile in presenza di un pubblico che si presume
sufficientemente esperto; la si trova al contrario nei “laboratori” didattici
offerti esplicitamente a un pubblico non esperto, con l’aggravante di essere
molto meno rigoroso. La ragione è ovviamente nella carenza di formazione del
personale che opera in questi contesti, carenza che viene ammessa e spiegata
con la scarsa disponibilità di fondi. Rischio di passare per qualunquista se
mi domando quante ore di formazione si potrebbero pagare rinunciando alla
presenza di uno degli eminenti personaggi che si invitano alle
manifestazioni, magari quello più noto per via della TV ma di cui nessuno
saprebbe dire quali scoperte o ricerche abbia fatto? Ma
non si tratta soltanto di carenza di formazione, quanto di modelli di
formazione. In assenza di percorsi specifici ognuno assume i modelli che
conosce più da vicino e che sono dominanti nell’ambiente. Non c’è da stupirsi
allora che giovani studenti universitari, impiegati come animatori di
laboratori didattici, facciano lezione allo
sprovveduto pubblico che si ritrovano di fronte. La
lezione è il modello dominante nello spazio educativo nazionale; esso
discende dall’università fino alla scuola di base, dove per fortuna
circolano, più o meno clandestine, anche altre pratiche. Il
problema non è la lezione in sé, ma il fatto che, contrariamente a un’idea
diffusa nel nostro paese, anche fare lezione è una tecnica (técne in greco
significa sia “arte” che “mestiere”) che richiede apprendimento, esercizio e
forse anche “talento”. E poi è una questione di contesti: che funzione svolge
la lezione in un laboratorio? In
un contesto educativo come un laboratorio didattico scientifico si dovrebbero
creare le condizioni perché possa accadere quello che già accade
nell’apprendimento “naturale” dei bambini (quando imparano a camminare o a
parlare ad esempio), che accade nella scienza, è cioè che le persone costruiscono idee, concetti magari, a partire dalle esperienze attraverso
una elaborazione delle rappresentazioni che è essenzialmente linguistica e
che quindi richiede interazione sociale. Invece
nel caso migliore le esperienze sono usate come dimostrazioni, come esempi, dopo che si è enunciata una teoria;
quasi nessuno mostra prima le
esperienze per chiedere poi di che cosa
siano esempi (Bateson). E per enunciare la
teoria si usano i termini e i concetti del linguaggio scientifico (con
inevitabili approssimazioni e spesso grossolani errori), dando per scontato
proprio ciò che si vorrebbe far comprendere a chi non sa già. UNA
RELAZIONE A-SIMMETRICA La
ragione per cui un giovane studente, in
assenza di una formazione che gli fornisca alternative, adotta questa
modalità comunicativa in un contesto incongruo è probabilmente legata alla
dimensione del potere che accompagna la lezione, una a-simmetria garantita
nella relazione che mette al riparo da sorprese, da possibilità di essere
messi in crisi. È un modo comodo di gestire, eliminandola dal campo
d’interazione, l’incertezza che potrebbero provocare, in uno spazio di
comunicazione meno strutturato e più aperto, le domande che nascono dallo spiazzamento, dal praticare
un’esperienza o dall’osservare un fenomeno con occhi nuovi. Sarebbe
ben triste se (anche) per questo la scienza fosse destinata a rimanere un corpo
estraneo nella cultura del nostro paese, proprio la scienza che di domande si
alimenta. Se
vogliamo sviluppare la cultura scientifica perché non proviamo a far
circolare buone domande in buoni laboratori condotti da buoni operatori
preparati da una buona formazione? Non vorrei che questa fosse presa come una
domanda retorica, perciò aggiungo che dovremmo cominciare a chiederci se sia
possibile, e come, imparare non soltanto studiando sui libri, ma mettendo in
azione il pensiero e il corpo e l’interazione comunicativa attorno a problemi
di biologia dove i tempi e gli spazi sono spesso inaccessibili a una
esplorazione diretta, o se si possa circoscrivere in unità di lavoro una
problematica come quella dell’evoluzione che si struttura come una rete
complessa di idee, concetti, storie… Per
i formatori di lavoro ce n’è. |