Intervento al convegno “La vita meravigliosa”
dedicato a Stephen Jay Gould evoluzionista
– Museo di Storia Naturale di Milano – 18/1/2013 Come formatore ed insegnante il tema che vorrei sviluppare é la
costruzione di contesti di apprendimento attraverso le storie di evoluzione
di Stephen Jay Gould. Il titolo di questo
intervento è una citazione da Gregory Bateson
(Verso un’ecologia della mente),
che racconta di un dialogo con uno studente: “Be’... lei vuole
proprio che noi impariamo quello che ci sta raccontando?” Ebbi un attimo di
esitazione, ma egli riprese subito: “… oppure tutto
questo è una specie di esempio, un’illustrazione di qualcos’altro?” “Certo, proprio
così!”. Ma un esempio di
che cosa? Non è un caso che sia una citazione di Bateson: chi ha tra i propri riferimenti culturali sia Bateson che Gould coglie una relazione profonda tra le
idee dell’uno e dell’altro anche se si muovono a livelli diversi. Parto dunque da un esempio: “Il sorriso
del fenicottero”, il saggio che è stato il mio primo incontro con gli scritti
di Gould. Il saggio inizia con Buffalo Bill e la
caccia al bisonte: Gould riferisce di come i bisonti venivano cacciati solo
per prelevare le lingue che erano ritenute una prelibatezza culinaria, così
come secoli prima alla tavola di Eliogabalo lo
erano le lingue di fenicottero. Segue una serie storica di descrizioni del
fenicottero a partire da Menippo (III a.C.): il filo conduttore è l’elemento
dell’inversione mascella-mandibola (gli uccelli hanno di norma la mascella, e
quindi il ramo superiore del becco, meno sviluppata della mandibola e del
ramo inferiore del becco), che viene ricondotta all’abitudine alimentare dei
fenicotteri che, per raccogliere i piccoli animali di cui si cibano, dragano e filtrano con il
becco lo strato d’acqua in cui camminano, piegando in avanti il collo fino a
rovesciare la testa. Gould finalmente introduce il problema
evoluzionistico di cui vuole occuparsi (il comportamento adattativo induce cambiamenti di forma?) e lo
colloca sullo sfondo dell’eterno dibattito tra strutturalismo e
funzionalismo: è la struttura che vincola le possibilità di cambiamento adattativo
o è l’adattamento funzionale all’ambiente che modifica le strutture? Il saggio si conclude con la storia
naturale del fenicottero inserita in una tipologia di animali “capovolti”: il
fenicottero dunque come un esempio di una problematica generale nello studio
dell’evoluzione. Lo stesso Gould parla della particolare
struttura dei suoi saggi in questo modo: ... il mio modo
personale di costruire – attraverso connessioni stranamente incidentali – a
partire da un elemento o da un caso piccolo e concreto per salire a una vasta
generalità... (S.J Gould, Otto piccoli porcellini) Il “fare esempi” appare dunque come una
strategia comunicativa, ma consapevolmente investita di valore
epistemologico. Ma c’è una indicazione ancora più specifica: … ogni organismo
nella sua forma e nel suo comportamento può offrirci messaggi generali, se
solo impariamo a interpretarli. Il linguaggio che ci permette una tale
interpretazione è la teoria dell’evoluzione.
(S.J. Gould, Il pollice del panda) Dunque il fare esempi mette in relazione
il raccontare storie con la storia naturale; e ancora Bateson ci aiuta a esplicitare questa relazione profonda
che è di tipo epistemologico, che cioè ha a che fare con la “mappa” mentale
che ci costruiamo per conoscere il mondo, ma che riguarda anche il
“territorio” della realtà vivente e i suoi processi, primo fra tutti
l’evoluzione: Una storia è un
piccolo nodo o complesso di quella specie di connessione che chiamiamo
pertinenza [...] un qualunque A è pertinente a un qualunque B se A e B sono
entrambi parti o componenti della stessa ‘storia’ [...] Che cos’è una
storia che possa connettere A e B, sue parti? ed è vero che il fatto generale
che le parti sono connesse in questo
modo sta alla radice stessa di ciò che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione
di contesto, di struttura nel tempo. (G. Bateson, Mente
e natura) La mia ricerca personale riguarda nello
specifico il modo di conoscere dei bambini; ecco allora quello che può essere
un esempio del discorso di Bateson su che cos’è una
storia: [Conversazione
con bambini di 5a elementare] Adulto - <<Una ragnatela è
artificiale o naturale?>> Più voci -
<<Naturale.>> (timidamente) -
<<Artificiale... se l'ha costruita il ragno...>> Adulto - <<Un tavolo di legno è
artificiale o naturale?>> Più voci -
<<Artificiale e naturale>> <<Il legno
è naturale ma poi viene trasformato.>> <<Prima c'è
l'albero ed è naturale, poi l'uomo gli dà la forma ed è artificiale.>> Adulto - <<Le trasformazioni sono
tutte dello stesso tipo?>> <<Dipende anche da che mezzi usano: se
ci vuole una macchina per...>> A un adulto che pone un
problema dentro modalità di pensiero classificatorio dicotomico, i bambini
propongono un diverso modo di pensare la realtà, come storia appunto,
sistema di pertinenze; in questo frammento c’è quanto fa di un discorso una
storia: la struttura nel tempo (prima...poi...) e il
riferimento a un contesto, per cui la qualità di un oggetto è il
prodotto di un’azione (l’ha costruita...) e di condizioni (ci vuole
una macchina per...). Lo costruzione di conoscenza
scientifica nei bambini viene spesso descritta come orientata a un
progressivo aumento di astrazione, oggettività, causalità, ma è altrettanto importante
cercarvi invece il permanere di una
originaria struttura narrativa, ritenuta “ingenua”; la sua perdita, legata ai
processi di inculturazione, creerà problemi nella comprensione adulta delle
scienze strettamente legate a processi storici ed evolutivi (paleontologia,
geologia, ecc.) e alimenterà la sottovalutazione culturale dell’importanza
che ha la dimensione storica, e anche biografica, a livello epistemologico;
importanza non solo per l’acquisizione del pensiero e della prassi
scientifica, ma anche per l’apprendimento delle idee scientifiche: ... prospettive
biografiche (... compendiare la portata e la forza di un principio esemplificandone
il ruolo nello sviluppo intellettuale di uno scienziato particolarmente
interessante). [...] non
perdiamo nulla della concreta bellezza e del significato della scienza,
mentre aggiungiamo alle spiegazioni convenzionali di ciò che pensiamo di
sapere la complessità del come siamo pervenuti (o non siamo pervenuti) a quel
sapere. (S. J. Gould, Le pietre
false di Marrakech) Pensando all’apprendimento a partire da
queste riflessioni, emerge però un problema di fondo che sta nella disarmonia
tra pratica e comunicazione (didattica) della scienza. Nella pratica
della scienza è centrale il paradigma della scoperta (invenzione),
all’interno del quale lo scienziato, per mestiere, è chi non sa (altrimenti
perché scoprire o inventare?). Qualunque evento è percepito
dallo scienziato come esempio: sta
a lui scoprire di che cosa è
esempio. Nella comunicazione
didattica della scienza domina il paradigma della “lezione”, “gioco linguistico”
(Wittgenstein) consolidato a livello sociale, in cui chi sa “spiega” a chi
non sa. In questo paradigma l’esempio ha una funzione retorica: viene fatto
seguire all’enunciazione teorica per convincere il pubblico della sua
validità. Davvero pensiamo che questo capovolgimento
del paradigma stesso della scienza nella comunicazione non sia implicato
profondamente nella marginalità del pensare scientifico nella nostra società,
nella sua estraneità alla nostra cultura di massa? L’episodio del “tunnel”, aperto sotto
l’Europa dalla ministra dell’Istruzione Gelmini per far passare i neutrini da
Ginevra al Gran Sasso, che ha attirato sul nostro paese le risate e la commiserazione
di tutto il mondo, non è altro che l’espressione al vertice delle istituzioni
educative di questa incultura. L’esempio iniziale del saggio
sul fenicottero metteva in luce un altro aspetto pedagogico: la domanda che
Gould pone attraverso quell’esempio è di quelle che von Foester
ha definito “legittime” ovvero domande cui la risposta non è nota in partenza.
Confrontiamo la situazione in cui Gould pone un problema realmente discusso
nella comunità scientifica degli evoluzionisti, e tuttora aperto, con
l’interrogazione scolastica: questa prevede che chi fa la domanda sappia la risposta
e dunque non intenda scoprirla, ma verificare se l’interrogato è in grado di
fornire la riposta attesa dall’interrogante; all’interrogato però è richiesto
di “spiegare”, ovvero di comportarsi come se avesse di fronte chi non conosce
ancora la risposta. Questo “gioco linguistico” ha una sua funzione sociale
nel contesto scolastico, ma sicuramente è ben diverso dal “gioco” della ricerca. L’ipotesi pedagogica di
orientare sulla scoperta il
processo educativo solleva un’obiezione: la scoperta è di casa in un
laboratorio scientifico, e quindi si può riprodurre nel laboratorio didattico,
ma nella comunicazione della scienza...? Per rispondere faccio
riferimento a un’esperienza di qualche tempo fa nei laboratori del Movimento
di Cooperazione Educativa (MCE) con Fabio Guindani,
che utilizzando come esempio i romanzi di Stevenson, faceva emergere come il
gioco condotto dallo scrittore era proprio quello di innescare processi
attivi di scoperta da parte del lettore (Carlo Ginzburg, in un noto saggio
del 1979, parlava di “paradigma indiziario” per le scienze umane). Gould si colloca in questa prospettiva: Mi piace anche trovare inizi
insoliti per affrontare argomenti importanti trattati in generale in modi
convenzionali. (S.J Gould, Otto piccoli
porcellini) I titoli dei suoi saggi del resto lo testimoniano. Il gioco della scoperta ha la sua mossa
iniziale nello spiazzamento: di
fronte alla situazione che mi si propone ciò che so non mi basta, non
funziona, non riesce a mettere ordine. In questo stato mentale è impossibile separare l’aspetto cognitivo
da quello emotivo, e questa è una risorsa educativa fondamentale là dove si
lamentano le conseguenze negative, a volte culturalmente devastanti, di
quella separazione tra le due sfere (la parola “sfere” è significativa di una
perfetta chiusura), che non sta nella realtà dell’esperienza né nella
organizzazione della mente, ma è prodotto di quella stessa cultura. È lo spiazzamento che induce
a porsi domande e quindi mette in moto la ricerca, la quale ha come effetto
il ristabilirsi di un equilibrio mentale, che però ha allargato la sua base a
comprendere la novità. In altre parole questo è apprendimento. È interessante, per chi
lavora al confine tra scienza, in particolare scienza evoluzionistica, ed
educazione, la relazione che Gregory Bateson
costruisce tra evoluzione e apprendimento. I due processi si collocano a due
livelli diversi, il primo riguarda popolazioni e avviene attraverso le generazioni,
mentre il secondo riguarda lo sviluppo dell’individuo nell’arco della sua
vita; tuttavia c’è un’analogia strutturale tra il processo di variazione e
riproduzione differenziale dell’evoluzione e quello per “tentativi ed errori”
dell’apprendimento: entrambi sono resi possibili da un elemento aleatorio e
da un filtro selettivo. Il risultato in entrambi i casi è un incremento
dell’adattamento. Parlare di apprendimento per
tentativi ed errori riporta al laboratorio come contesto di apprendimento. Ma, come educatore, la domanda che mi
pongo è: un laboratorio didattico sull’evoluzione è possibile? La
domanda nasce dal fatto che l’evoluzione riguarda fenomeni che nella maggior
parte dei casi avvengono in spazi poco accessibili all’esperienza scolastica,
che siano le foreste amazzoniche o l’interno del corpo, e in tempi fuori
scala, o in situazioni dove l’esperimento è impraticabile. Ma soprattutto la
scienza evolutiva è complessa, intendendo
“complessa” in senso proprio, a indicare un sistema di idee interconnesse e
interdipendenti: per metterne a fuoco una si è costretti a fare ricorso ad
altre, che a loro volta sono connesse ad altre, tra cui spesso quella di
partenza. Allora la mia risposta alla domanda va nella
direzione di un laboratorio che possiamo chiamare “mentale” riconducibile a
quella situazione in cui lo scienziato lavora su dati già acquisiti attraverso
l’osservazione, su rappresentazioni, alla ricerca di pattern, modelli, spiegazioni... Ho in mente
come esempio il processo di scoperta (o invenzione, che poi etimologicamente
ha lo stesso significato) documentato dai Taccuini di Darwin. Se questa è l’ipotesi i saggi di S.J.
Gould sono una grande risorsa per i motivi che abbiamo visto emergere: l’
“epistemologia dell’esempio”, la struttura narrativa, la relazione organica
tra raccontare storie e storia naturale, il gioco delle domande e delle
ipotesi e, infine la non semplificazione: Nello scrivere i miei saggi seguo una regola
fondamentale: nessun compromesso. Renderò il linguaggio accessibile definendo
o eliminando le parole in gergo, ma non semplificherò i concetti. (S.J. Gould, Il
sorriso del fenicottero) È evidente qui
come l’orientamento epistemologico abbia conseguenze nell’etica. Perciò concludo
con una perorazione: come il “giuramento di Ippocrate” per i medici, che
questa dichiarazione di Gould diventi l’espressione di una deontologia professionale per chi si
occupa di comunicazione e di educazione scientifica. Non credo di esagerare, né nella sostanza,
né nello stile, dal momento che il mondo culturale in cui siamo immersi
sembra invece seguire perfettamente quest’altra, quasi opposta, dichiarazione
d’intenti: Nel lavoro non ho
pretese di scientificità, anche in quanto non voglio istruire né tantomeno
desidero essere istruito, mentre desidero intrattenere e interessare le
persone che, come me, non sanno niente di scienza ma si divertono a
fantasticare e riflettere (non troppo profondamente) sui vari fenomeni che li
circondano... (Samuel Butler). |