Marcello Sala

“UN ESEMPIO DI CHE COSA?”

epistemologia della divulgazione

-pubblicato in- 

PIKAIA

il portale dell’evoluzionismo

filosofia della biologia (8/10/2013)

www.pikaia.eu

 

Intervento al convegno “La vita meravigliosa” dedicato a Stephen Jay Gould evoluzionista – Museo di Storia Naturale di Milano – 18/1/2013

 

Come formatore ed insegnante il tema che vorrei sviluppare é la costruzione di contesti di apprendimento attraverso le storie di evoluzione di Stephen Jay Gould.

   Il titolo di questo intervento è una citazione da Gregory Bateson (Verso un’ecologia della mente), che racconta di un dialogo con uno studente:

“Be’... lei vuole proprio che noi impariamo quello che ci sta raccontando?”

Ebbi un attimo di esitazione, ma egli riprese subito:

“… oppure tutto questo è una specie di esempio, un’illustrazione di qualcos’altro?”

“Certo, proprio così!”.

Ma un esempio di che cosa?

   Non è un caso che sia una citazione di Bateson: chi ha tra i propri riferimenti culturali sia Bateson che Gould coglie una relazione profonda tra le idee dell’uno e dell’altro anche se si muovono a livelli diversi.

   Parto dunque da un esempio: “Il sorriso del fenicottero”, il saggio che è stato il mio primo incontro con gli scritti di Gould.

   Il saggio inizia con Buffalo Bill e la caccia al bisonte: Gould riferisce di come i bisonti venivano cacciati solo per prelevare le lingue che erano ritenute una prelibatezza culinaria, così come secoli prima alla tavola di Eliogabalo lo erano le lingue di fenicottero. Segue una serie storica di descrizioni del fenicottero a partire da Menippo (III a.C.): il filo conduttore è l’elemento dell’inversione mascella-mandibola (gli uccelli hanno di norma la mascella, e quindi il ramo superiore del becco, meno sviluppata della mandibola e del ramo inferiore del becco), che viene ricondotta all’abitudine alimentare dei fenicotteri che, per raccogliere i piccoli animali di cui si cibano, dragano e filtrano con il becco lo strato d’acqua in cui camminano, piegando in avanti il collo fino a rovesciare la testa.

   Gould finalmente introduce il problema evoluzionistico di cui vuole occuparsi (il comportamento adattativo induce cambiamenti di forma?) e lo colloca sullo sfondo dell’eterno dibattito tra strutturalismo e funzionalismo: è la struttura che vincola le possibilità di cambiamento adattativo o è l’adattamento funzionale all’ambiente che modifica le strutture?

   Il saggio si conclude con la storia naturale del fenicottero inserita in una tipologia di animali “capovolti”: il fenicottero dunque come un esempio di una problematica generale nello studio dell’evoluzione.

   Lo stesso Gould parla della particolare struttura dei suoi saggi in questo modo:

... il mio modo personale di costruire – attraverso connessioni stranamente incidentali – a partire da un elemento o da un caso piccolo e concreto per salire a una vasta generalità...  (S.J Gould, Otto piccoli porcellini)

   Il “fare esempi” appare dunque come una strategia comunicativa, ma consapevolmente investita di valore epistemologico. Ma c’è una indicazione ancora più specifica:

… ogni organismo nella sua forma e nel suo comportamento può offrirci messaggi generali, se solo impariamo a interpretarli. Il linguaggio che ci permette una tale interpretazione è la teoria dell’evoluzione.  (S.J. Gould, Il pollice del panda)

   Dunque il fare esempi mette in relazione il raccontare storie con la storia naturale; e ancora Bateson ci aiuta a esplicitare questa relazione profonda che è di tipo epistemologico, che cioè ha a che fare con la “mappa” mentale che ci costruiamo per conoscere il mondo, ma che riguarda anche il “territorio” della realtà vivente e i suoi processi, primo fra tutti l’evoluzione:

Una storia è un piccolo nodo o complesso di quella specie di connessione che chiamiamo pertinenza [...] un qualunque A è pertinente a un qualunque B se A e B sono entrambi parti o componenti della stessa ‘storia’ [...]

Che cos’è una storia che possa connettere A e B, sue parti? ed è vero che il fatto generale che le parti sono connesse in  questo modo sta alla radice stessa di ciò che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione di contesto, di struttura nel tempo.  (G. Bateson, Mente e natura)

   La mia ricerca personale riguarda nello specifico il modo di conoscere dei bambini; ecco allora quello che può essere un esempio del discorso di Bateson su che cos’è una storia:

[Conversazione con bambini di 5a elementare]

Adulto - <<Una ragnatela è artificiale o naturale?>>

Più voci - <<Naturale.>>

(timidamente) - <<Artificiale... se l'ha costruita il ragno...>>

Adulto - <<Un tavolo di legno è artificiale o naturale?>>

Più voci - <<Artificiale e naturale>>

<<Il legno è naturale ma poi viene trasformato.>>

<<Prima c'è l'albero ed è naturale, poi l'uomo gli dà la forma ed è artificiale.>>

Adulto - <<Le trasformazioni sono tutte dello stesso tipo?>>

 <<Dipende anche da che mezzi usano: se ci vuole una macchina per...>>

   A un adulto che pone un problema dentro modalità di pensiero classificatorio dicotomico, i bambini propongono un diverso modo di pensare la realtà, come storia appunto, sistema di pertinenze; in questo frammento c’è quanto fa di un discorso una storia: la struttura nel tempo (prima...poi...) e il riferimento a un contesto, per cui la qualità di un oggetto è il prodotto di un’azione (l’ha costruita...) e di condizioni (ci vuole una macchina per...).

   Lo costruzione di conoscenza scientifica nei bambini viene spesso descritta come orientata a un progressivo aumento di astrazione, oggettività, causalità, ma è altrettanto importante cercarvi invece il permanere di una originaria struttura narrativa, ritenuta “ingenua”; la sua perdita, legata ai processi di inculturazione, creerà problemi nella comprensione adulta delle scienze strettamente legate a processi storici ed evolutivi (paleontologia, geologia, ecc.) e alimenterà la sottovalutazione culturale dell’importanza che ha la dimensione storica, e anche biografica, a livello epistemologico; importanza non solo per l’acquisizione del pensiero e della prassi scientifica, ma anche per l’apprendimento delle idee scientifiche:

... prospettive biografiche (... compendiare la portata e la forza di un principio esemplificandone il ruolo nello sviluppo intellettuale di uno scienziato particolarmente interessante).

[...] non perdiamo nulla della concreta bellezza e del significato della scienza, mentre aggiungiamo alle spiegazioni convenzionali di ciò che pensiamo di sapere la complessità del come siamo pervenuti (o non siamo pervenuti) a quel sapere.  (S. J. Gould, Le pietre false di Marrakech)

   Pensando all’apprendimento a partire da queste riflessioni, emerge però un problema di fondo che sta nella disarmonia tra pratica e comunicazione (didattica) della scienza. Nella pratica della scienza è centrale il paradigma della scoperta (invenzione), all’interno del quale lo scienziato, per mestiere, è chi non sa (altrimenti perché scoprire o inventare?). Qualunque evento è percepito dallo scienziato come esempio: sta a lui scoprire di che cosa è esempio.   Nella comunicazione didattica della scienza domina il paradigma della “lezione”, “gioco linguistico” (Wittgenstein) consolidato a livello sociale, in cui chi sa “spiega” a chi non sa. In questo paradigma l’esempio ha una funzione retorica: viene fatto seguire all’enunciazione teorica per convincere il pubblico della sua validità.

   Davvero pensiamo che questo capovolgimento del paradigma stesso della scienza nella comunicazione non sia implicato profondamente nella marginalità del pensare scientifico nella nostra società, nella sua estraneità alla nostra cultura di massa?

   L’episodio del “tunnel”, aperto sotto l’Europa dalla ministra dell’Istruzione Gelmini per far passare i neutrini da Ginevra al Gran Sasso, che ha attirato sul nostro paese le risate e la commiserazione di tutto il mondo, non è altro che l’espressione al vertice delle istituzioni educative di questa incultura.

   L’esempio iniziale del saggio sul fenicottero metteva in luce un altro aspetto pedagogico: la domanda che Gould pone attraverso quell’esempio è di quelle che von Foester ha definito “legittime” ovvero domande cui la risposta non è nota in partenza. Confrontiamo la situazione in cui Gould pone un problema realmente discusso nella comunità scientifica degli evoluzionisti, e tuttora aperto, con l’interrogazione scolastica: questa prevede che chi fa la domanda sappia la risposta e dunque non intenda scoprirla, ma verificare se l’interrogato è in grado di fornire la riposta attesa dall’interrogante; all’interrogato però è richiesto di “spiegare”, ovvero di comportarsi come se avesse di fronte chi non conosce ancora la risposta. Questo “gioco linguistico” ha una sua funzione sociale nel contesto scolastico, ma sicuramente è ben diverso dal “gioco” della ricerca.

   L’ipotesi pedagogica di orientare sulla scoperta il processo educativo solleva un’obiezione: la scoperta è di casa in un laboratorio scientifico, e quindi si può riprodurre nel laboratorio didattico, ma nella comunicazione della scienza...?

   Per rispondere faccio riferimento a un’esperienza di qualche tempo fa nei laboratori del Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) con Fabio Guindani, che utilizzando come esempio i romanzi di Stevenson, faceva emergere come il gioco condotto dallo scrittore era proprio quello di innescare processi attivi di scoperta da parte del lettore (Carlo Ginzburg, in un noto saggio del 1979, parlava di “paradigma indiziario” per le scienze umane).  Gould si colloca in questa prospettiva:

 Mi piace anche trovare inizi insoliti per affrontare argomenti importanti trattati in generale in modi convenzionali.  (S.J Gould, Otto piccoli porcellini)

I titoli dei suoi saggi del resto lo testimoniano.

   Il gioco della scoperta ha la sua mossa iniziale nello spiazzamento: di fronte alla situazione che mi si propone ciò che so non mi basta, non funziona, non riesce a mettere ordine. In questo stato mentale è impossibile separare l’aspetto cognitivo da quello emotivo, e questa è una risorsa educativa fondamentale là dove si lamentano le conseguenze negative, a volte culturalmente devastanti, di quella separazione tra le due sfere (la parola “sfere” è significativa di una perfetta chiusura), che non sta nella realtà dell’esperienza né nella organizzazione della mente, ma è prodotto di quella stessa cultura.

   È lo spiazzamento che induce a porsi domande e quindi mette in moto la ricerca, la quale ha come effetto il ristabilirsi di un equilibrio mentale, che però ha allargato la sua base a comprendere la novità. In altre parole questo è apprendimento.

   È interessante, per chi lavora al confine tra scienza, in particolare scienza evoluzionistica, ed educazione, la relazione che Gregory Bateson costruisce tra evoluzione e apprendimento. I due processi si collocano a due livelli diversi, il primo riguarda popolazioni e avviene attraverso le generazioni, mentre il secondo riguarda lo sviluppo dell’individuo nell’arco della sua vita; tuttavia c’è un’analogia strutturale tra il processo di variazione e riproduzione differenziale dell’evoluzione e quello per “tentativi ed errori” dell’apprendimento: entrambi sono resi possibili da un elemento aleatorio e da un filtro selettivo. Il risultato in entrambi i casi è un incremento dell’adattamento.

   Parlare di apprendimento per tentativi ed errori riporta al laboratorio come contesto di apprendimento. Ma, come educatore, la domanda che mi pongo è: un laboratorio didattico sull’evoluzione è possibile? La domanda nasce dal fatto che l’evoluzione riguarda fenomeni che nella maggior parte dei casi avvengono in spazi poco accessibili all’esperienza scolastica, che siano le foreste amazzoniche o l’interno del corpo, e in tempi fuori scala, o in situazioni dove l’esperimento è impraticabile. Ma soprattutto la scienza evolutiva è complessa, intendendo “complessa” in senso proprio, a indicare un sistema di idee interconnesse e interdipendenti: per metterne a fuoco una si è costretti a fare ricorso ad altre, che a loro volta sono connesse ad altre, tra cui spesso quella di partenza.

   Allora la mia risposta alla domanda va nella direzione di un laboratorio che possiamo chiamare “mentale” riconducibile a quella situazione in cui lo scienziato lavora su dati già acquisiti attraverso l’osservazione, su rappresentazioni, alla ricerca di pattern, modelli, spiegazioni... Ho in mente come esempio il processo di scoperta (o invenzione, che poi etimologicamente ha lo stesso significato) documentato dai Taccuini di Darwin.

   Se questa è l’ipotesi i saggi di S.J. Gould sono una grande risorsa per i motivi che abbiamo visto emergere: l’ “epistemologia dell’esempio”, la struttura narrativa, la relazione organica tra raccontare storie e storia naturale, il gioco delle domande e delle ipotesi e, infine la non semplificazione:

 Nello scrivere i miei saggi seguo una regola fondamentale: nessun compromesso. Renderò il linguaggio accessibile definendo o eliminando le parole in gergo, ma non semplificherò i concetti.  (S.J. Gould, Il sorriso del fenicottero)

È evidente qui come l’orientamento epistemologico abbia conseguenze nell’etica. Perciò concludo con una perorazione: come il “giuramento di Ippocrate” per i medici, che questa dichiarazione di Gould diventi l’espressione  di una deontologia professionale per chi si occupa di comunicazione e di educazione scientifica.

   Non credo di esagerare, né nella sostanza, né nello stile, dal momento che il mondo culturale in cui siamo immersi sembra invece seguire perfettamente quest’altra, quasi opposta, dichiarazione d’intenti:

Nel lavoro non ho pretese di scientificità, anche in quanto non voglio istruire né tantomeno desidero essere istruito, mentre desidero intrattenere e interessare le persone che, come me, non sanno niente di scienza ma si divertono a fantasticare e riflettere (non troppo profondamente) sui vari fenomeni che li circondano...  (Samuel Butler).