Per
chi non ricorda la vicenda dell’eliminazione dell’evoluzione dai programmi
scolastici riassumo brevemente. Prima
del 2004 nei programmi delle scuole medie l’evoluzione è presente in quattro
passaggi, fra i quali “Struttura e
dinamica delle popolazioni in rapporto alle condizioni dell’ambiente. Origine
ed evoluzione biologica e culturale della specie umana.” sotto il titolo “Struttura, funzione ed evoluzione dei
viventi”. Nel
2004 per intervento del ministro Moratti i quattro punti spariscono. La
comunità scientifica si ribella, viene istituita la “commissione Darwin”
presieduta da Rita Levi Montalcini, che nel febbraio 2005 consegna al
ministro un documento in cui si “ingiunge” di reinserire l’insegnamento
dell’evoluzione nella scuola primaria e secondaria di primo grado (elementari
e medie). Il
ministro Moratti dichiara di recepire il parere della commissione e di dare
conseguenti disposizioni amministrative. Ciò è sufficiente perché
praticamente tutti i media e perfino i soggetti impegnati nella campagna
“dalla parte di Darwin” comincino a ripetere che l’evoluzione è stata reintrodotta
nei programmi. Invece passano otto mesi prima che vengano emanate le
modifiche ai programmi di scienze per la terza media in allegato alla riforma
dei licei, in cui c’è un unico richiamo all’evoluzione: “Interazioni reciproche tra geosfera e biosfera, loro coevoluzione. Darwin”. Nella
primavera 2006 si insedia il nuovo governo. Il ministro dell’Istruzione,
ritornata Pubblica, Giuseppe Fioroni, nel settembre 2007 emana le nuove “Indicazioni per il curricolo”. Se si
cerca ciò che in qualche
modo possa essere ricondotto all’evoluzione, si trovano, tra gli Obiettivi di apprendimento al termine
della classe terza della scuola secondaria di primo grado, le seguenti
voci: – Individuare la rete di
relazioni e i processi di cambiamento del vivente introducendo il concetto di
organizzazione microscopica a livello di cellula (per esempio: respirazione
cellulare, alimentazione, fotosintesi; crescita e sviluppo; coevoluzione tra specie). – Individuare l’unità e
la diversità dei viventi, effettuando attività a scuola, in laboratorio, sul
campo e in musei scientifico-naturalistici. – Comprendere il senso
delle grandi classificazioni. – Riconoscere gli
adattamenti e la dimensione storica della vita, intrecciata con la storia
della Terra e dell’uomo. – Comparare le idee di
storia naturale e di storia umana. – Comprendere la funzione
fondamentale della biodiversità nei sistemi ambientali. Come si vede, non sono mai usate le
parole, come evoluzione appunto o selezione naturale, con le quali da 150
anni è conosciuta la
teoria dell’evoluzione. Niente per la scuola elementare. Una sfida Quando il ministro
dell’Istruzione proibì l’evoluzione ai minori di 14 anni, quello dei Beni Culturali spiegò che ciò era fatto per
il bene dei bambini (<<è particolarmente importante fare
attenzione all’età degli allievi ai quali si impartisce l’insegnamento
dell’evoluzionismo...>>: da
una dichiarazione dell’on. Buttiglione, novembre 2005). La premessa
implicita del discorso di Buttiglione
è che la scuola è un luogo dove gli insegnanti indottrinano gli
allievi: per questo è così importante discutere di quale dottrina. Per chi ha un’idea diversa
della scuola, come un luogo in cui chi insegna crea le condizioni perché i
bambini co-costruiscano conoscenza in
un contesto sociale a partire dal riferimento alla realtà e dal bagno di
linguaggio in cui sono immersi, la domanda “legittima” è se la teoria
dell’evoluzione sia accessibile o no alle capacità di comprensione dei
bambini. É una sfida vera, proprio
per chi pensa che si impari dal fare esperienza. L’evoluzione è difficile,
perché tratta di fenomeni per lo più non osservabili direttamente, in luoghi
lontani come le savane del Serengeti o inaccessibili come l’interno del
corpo, che si sviluppano in tempi a volte “profondi” e per questo
impercettibili, e soprattutto che implicano una
irriducibile complessità: per ogni cosa da spiegare ci si ritrova a
doverne spiegare altre dieci per di più in una rete
di circolarità. A
scuola quando una cosa è difficile la si rimanda più in là nel curricolo, ma
nel frattempo la mente dei bambini non si può mettere nel congelatore e ci si
ritrova con diciassettenni che, alla richiesta di scrivere in non più di tre
righe e di tre minuti che cos’è l’evoluzione, rispondono [1]: «L’evoluzione è un cambiamento fondamentale nel
corso della vita.» «L’evoluzione è un processo con il quale un
organismo animale o vegetale cambia quindi si evolve.» La scienza ci dice che
l’evoluzione è un cambiamento delle
specie viventi che si realizza attraverso
il succedersi delle generazioni e che è un fenomeno di natura e di scala
completamente diversa dallo sviluppo del singolo organismo nell’arco della
sua esistenza. Ancora: «… rappresenta dei cambiamenti che portano una
specie a cambiare delle proprie parti o delle proprie abitudini per
adattarsi meglio all’ambiente che la circonda e per riuscire a sopravvivere.» «L’evoluzione è il cambiamento delle specie in
meglio, in un certo senso il progresso delle specie.» La scienza ci dice che la
direzione dell’evoluzione non è né necessaria, né casuale, ma contingente,
che non è finalizzata, tanto meno
in modo intenzionale e consapevole da parte del soggetto che evolve (la
specie), non è un progresso né un
miglioramento. Quelli dei liceali sono dunque errori gravi dal punto di vista
scientifico. La conoscenza dei bambini Quelli che seguono sono brani di una
conversazione a scuola tra bambini di otto anni, che non hanno studiato
l’evoluzione, in cui l’insegnante non intervenire mai nel merito
dell’argomento in discussione (ci tornerò più avanti) [2]: AKIRA <<Evoluzione e crescita sono due cose
diverse, perché crescita stai nella stessa specie, invece evoluzione da una
cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>> MARCO <<No:
l’Australopiteco e l’habilis vivevano
contemporaneamente; forse l’habilis e l’erectus.>> GIULIA M
<<Ci vuole molto, molto tempo.>> FRANCESCO
<<… la crescita è che cresci, evoluzione è che cambi di persona, muore
uno e quello che rinasce è un po’ diverso.>> LEO <<… il
figlio è già un po’ di più evoluto.>> e
ancora: AKIRA <<… se non si era evoluta la Terra, non
c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e siamo
arrivati noi.>> LEO
<<Potevamo evolverci in una maniera tale che potevamo vivere nel
fuoco.>> AKIRA <<Non è che c’è una specie di uomo e poi è
finita la vita dell’uomo: per adesso dal primo essere vivente c’è stata la
vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?- elettronici,
robot…>> Analizziamo come si
caratterizza la conoscenza che i bambini elaborano attorno dell’evoluzione: •
distinzione di livello tra organismo
individuale e specie: <<Evoluzione e crescita sono due cose
diverse, perché crescita stai nella stessa specie, invece evoluzione da una
cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>> •
non linearità: <<...
l’Australopiteco e l’habilis vivevano
contemporaneamente>> •
pertinenza della scala temporale: <<Ci vuole molto, molto tempo.>> •
continuità tra storia della Terra,
storia delle specie viventi, e storia umana: <<… se non si era evoluta la Terra, non
c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e siamo
arrivati noi.>> •
contingenza: <<Potevamo evolverci in una maniera tale che
potevamo vivere nel fuoco.>> •
possibilità e imprevedibilità: <<... per adesso dal primo essere vivente
c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?-
elettronici, robot… però
quello ancora non è successo>> Il confronto con gli
errori grossolani dei colleghi diciassettenni è imbarazzante. Ma quello che
colpisce di più è come i bambini affrontano anche il paradosso dell’identità
e del cambiamento. Risolvere un paradosso Nel
tempo dell’evoluzione il senso della continuità (<<Nicolò ha detto che da piccolo ti evolvi in grande, ma non è
che proprio subito da 2 anni vai a 4: prima ci vuole un po’ di tempo.>>)
si incontra con la discontinuità del cambiamento (<<Però crescere è un’altra cosa di evolversi, perché crescere è
quando cresce una persona e diventa grande, invece quando ti evolvi diventi
sempre altre cose e non finisce mai...>>). E qui si annida il paradosso: il
soggetto di un cambiamento, proprio nel momento in cui diventa tale, cessa di
essere quel soggetto, di esistere nella sua identità; Eraclito lo
esprimeva così nel celebre frammento: <<Nessun
uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l'uomo né le acque
del fiume sono gli stessi>> L'espressione
"diventare un altro" è paradossale sia riferita all’individuo <<... uno cresce e
gli crescono i capelli e cambia un po’, però rimane sempre la stessa
persona>> sia
alla specie <<... evoluzione da
una cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>> Da
un lato la continuità negherebbe il cambiamento <<Allora quando tu
cresci resti sempre così?! Non ti crescono un po’ i capelli, resti sempre
così?!>> dall’altro
lato il cambiamento negherebbe la continuità << ... non è sempre…
non ha lo stesso nome, cambia, con l’evoluzione non è la stessa
persona.>> L’elemento chiave portato
dalla creatività dei bambini, che preferisco identificare come diversità del
loro pensiero complesso, è la non
contraddizione tra continuità e discontinuità: <<Maestra, però la crescita mica è
uguale all’evoluzione, perché la crescita tu cresci e basta, invece
l’evoluzione è una cosa che fluisce in un’altra.>> A
un certo punto della conversazione viene introdotto un esempio spiazzante <<Per esempio c’è una partita di calcio
e c’è un giocatore fino al cambio e così la cosa: muore quello e viene un
altro.>> e
che tuttavia è utile per coltivare un’intuizione importante, quella della
relazione tra morte e cambiamento ruolo della morte degli individui
per la vita delle specie: <<Un giorno moriremo
noi e nascerà un’altra cosa.>> <<Io
sono d’accordo, perché c’è un uomo che stava evolvendosi e muore, e stava già
un po’ evolvendosi e il figlio è già un po’ di più evoluto.>> È questa intuizione
che porta a ri-formulare una
descrizione del fenomeno che permette
di uscire dal paradosso: l'evoluzione è un
cambiamento che avviene tra una
generazione e la successiva di
individui viventi: <<... la crescita è che cresci,
evoluzione è che cambi di persona, muore uno e quello che rinasce è un po’
diverso.>> Tutto ciò senza avere
studiato a scuola l’evoluzione, ma essendo stati immersi nel bagno della
cultura diffusa, che però è la stessa per tutti, con tempi diversi di
immersione. Crescere è perdere
qualcosa Lo
conversazione da cui ho tratto gli esempi precedenti è stata l’inizio di un
percorso durato più di un anno [3] in
cui i bambini hanno ricercato attorno alla tematica complessa dell’evoluzione
con serietà assoluta, profondità di pensiero e intuizioni pertinenti, mettendo
a fuoco i nodi essenziali di questo sistema di idee scientifiche, ma anche le
sue relazioni con la storia, la cultura, la società, in definitiva con la
propria vita. Dal confronto con i liceali si deve ammettere che i ragazzi perdono la comprensione
dell’evoluzione: dobbiamo cominciare ad accettare l’idea che crescere non
vuol dire solo acquisire qualcosa. Ma che cosa accade tra 8 anni e 17 anni? Possiamo dire che dal
bagno di cultura diffusa e/o dalla comunicazione scientifica (media, contesti educativi) subentrano
rappresentazioni errate. Questo discorso è ovviamente lungo e complesso e qui
mi limito a un esempio, perché i bambini vi hanno dedicato molta attenzione
nella loro conversazione iniziale: il comportamento
dell’individuo e lo sviluppo nell’arco della vita come metafora
dell’evoluzione della specie. <<A questo scopo
le pinne ventrali dei pesci che 300 milioni di anni fa si avventurarono nell’ambiente
subaereo, si trasformarono in quattro robuste zampe.>> (da
un libro di testo per la scuola media) dove l’effetto (la sopravvivenza) diventa la causa (finale) e la
causa (la diversità degli arti) diventa l’effetto. Oltretutto si attribuisce
la causa all’intenzione e a una capacità di modificare il proprio corpo, il
che può essere vero per i Pokemon o
i Trasformer, ma non c’entra con l’evoluzione naturale. Si può capire perché la crescita venga presa come immagine del
cambiamento evolutivo: perché è l’unico cambiamento percepibile; ma
essa riguarda l’individuo e quindi non può essere un modello dell’evoluzione
che si sviluppa su grandi scale di tempo e che riguarda intere specie. I
bambini l’hanno capito: <<è vero, maestra, non è un’evoluzione: non è che a un anno ti
chiami Andrea e a 4 anni Francesco, a 6…>> Non vorrei con
questi esempi avere fatto sorgere l’idea che questi sono bambini eccezionali.
Si tratta di una classe di una scuola di provincia, che comprende come
ovunque la propria quota di “casi difficili”. Conviene domandarsi invece
quali sono le condizioni che hanno
permesso a questo gruppo di bambini di elaborare una conoscenza così
profonda. L’arte di (non) insegnare Nella conversazione l’insegnante rispetta una regola semplice:
non dice mai la sua nel merito della discussione. È la prima mossa di un’arte di (non) insegnare; è utile
ricordare che in greco arte si dice tèchne, a significare che non si tratta di riattizzare il
mito di una innata propensione di alcune persone alla relazione educativa
(anche questa “ce l’abbiamo nel DNA”?). Con un’altra espressione si può
parlare di ”ascolto” dei bambini; l’ “ascoltare” richiede un atteggiamento etnografico, simile a quello
dell’antropologo, per cercare di comprendere ciò che i bambini dicono nel
contesto della loro cultura e non interpretandolo
nel contesto della nostra. Questo sottintende la premessa che i bambini, come gli straneri, sono
portatori di una cultura diversa
dalla nostra. É facile cadere nell’equivoco della lingua condivisa: noi e i
bambini possiamo usare le stesse parole, ma i significati, almeno all’inizio,
sono diversi; ostacoliamo la
comunicazione e la comprensione se non ce ne rendiamo conto. L’ascolto non esclude azioni da parte dell’insegnante, anzi è fatto di sue azioni. Non credo si
possa dire che cosa un insegnante deve
fare, ma osservo ciò che fa ad esempio
quando nelle conversazioni accetta la regola del gioco di non dire la sua nel
merito, ovvero quando non insegna.
Ad esempio fa interventi di “sostegno”, per dare dignità alla parola di
tutti, o di “contenimento cognitivo”, delimitando un campo di ricerca e
cercando di mettere a fuoco un oggetto là dove i bambini esplorano senza
confini. Ma
soprattutto l’insegnante non accetta tutto ciò che i bambini dicono, bensì
alimenta il “conflitto cognitivo”, mettendo in luce la contraddizione tra
idee diverse o con dati dell’osservazione, o chiedendo di fornire ulteriori spiegazioni, di argomentare, di contestualizzare,
senza giudicare però e senza anticipare
le risposte “giuste”: Nicolò <<Allora con
l’evoluzione un Cromagnon
è diventato una razza e un altro un’altra razza.>> Maestra <<Sì, ma
come?>> Leonardo <<Hanno fatto i
figli e…>> Maestra <<Erano tutti della stessa razza o
c’erano già razze diverse?>> Nicolò <<No, erano una sola razza, come
l’albero: il tronco è uguale per tutti, poi si formano i rami.>> (non
posso fare a meno di annotare con ammirazione come, di fronte a una domanda
che pone una dicotomia, Nicolò risponde costruendo una relazione, raccontando una storia, perfettamente
pertinente nel contesto evolutivo). Quello
che costruisce le condizioni per l’apprendimento è un educatore che assume
come riferimento l’autoorganizzazione dei bambini [4].
Oggi non è più (solo) dalla scuola che i bambini ricavano le informazioni; ma
le informazioni non bastano: la conoscenza è una costruzione che nessun altro
può fare al posto del soggetto. L’educatore permette al gruppo dei bambini di
co-costruire conoscenza a partire dalle esperienze che fanno e dal bagno di linguaggio in cui sono
immersi, come del resto hanno fatto prima di andare a scuola. È un educatore che accetta che il contenuto
dell'apprendimento non sta nell'insegnamento, quando invece la premessa implicita del nostro sistema
educativo è che il bambino impara ciò che gli si insegna; l’apprendimento è l'esito
del processo di ristrutturazione dell'identità cognitiva del soggetto,
l’insegnante può solo innescare il
processo. Raccontare storie La forma dell’apprendimento appare nella
descrizione di un osservatore che
non è affatto esterno al
sistema, che interviene modificando strategicamente
il proprio intervento in base alle informazioni che ricava dall'osservazione.
Questo significa che il percorso è un percorso di ricerca, con la sua
quota di imprevedibilità di incertezza e di scoperta. E dunque l’educatore
si assume il compito di ricostruire il percorso attraverso narrazioni
adeguate, con cui lo restituisce ai suoi allievi ma anche a se stesso e alla
scuola. La
storia di un’esperienza, di un viaggio di conoscenza, può essere raccontata
solo dopo che il viaggio è
avvenuto, a meno che non sia una storia inventata; perciò è molto stano che
nella scuola si insista a descrivere i percorsi prima che avvengano: in
questo modo sono solo percorsi vuoti,
vuoti della vita delle persone che li percorrono. In questo senso ancora una volta è significativa la conclusione
del tutto imprevista del percorso sull’evoluzione dei nostri bambini: l’insegnante
al tutor: <<Caro tutor, è un
po’ di tempo che non ci sentiamo. Adesso siamo in quinta. Avevo voglia,
comunque, di farti sapere che la storia continua. Ti avevo detto
che mi sarebbe piaciuto collegare il discorso scientifico sulle razze con
quello storico. E finalmente per una serie, come al solito, di coincidenze,
l’occasione è arrivata. Ho portato a
scuola tre copie delle leggi razziali firmate da Mussolini nel 1938. Ne ho
date una per ogni tavolo di lavoro insieme a delle domande guida, la solita
tecnica usata per far loro incontrare un testo difficile argomentando tra
loro. Gli articoli di questa legge
sono davvero inquietanti, ti consiglio di leggerli. è incredibile come siano precisi, da un punto di vista
linguistico burocratico formale, i criteri che definiscono l’appartenenza
alla razza ebraica e come non abbiano nessun fondamento di tipo logico
concettuale. Oltre alla definizione di razza, ci sono tutta una serie
di prescrizioni incredibili nei confronti di quelli che sono ritenuti ebrei.
Tra questi si dice che una donna ariana non può sposare un ebreo o uno
straniero. Una delle mie
domande ai bambini era cosa pensavano di questi divieti. J. mi ha risposto
”Io maestra non sarei nato, perché mia madre non avrebbe mai potuto sposare
mio padre che è di religione ebraica”.
Conosco J. da cinque anni e non sapevo che fosse per metà ebreo,
non me lo aveva mai detto.>>. Non è forse questo che ci attendiamo dalla scuola: che la storia
e la cultura di ciascuno possano incontrare la Storia e la Cultura cui
appartengono? L’apprendimento dell’evoluzione può essere uno spazio per
esplorazioni e scoperte su adattamento, specie e speciazione, ereditarietà,
ma anche su razza ed etnia, natura e cultura, senza contare la messa a punto
di strumenti matematici e meta-matematici (attorno a media e dispersione) e
riflessioni epistemologiche sul lavoro dello scienziato. Impostato come un
grande laboratorio, può diventare
luogo privilegiato per lo sviluppo di competenze, ovvero di conoscenze non
congelate in saperi scolastici, ma utilizzate per vivere consapevolmente e
responsabilmente nel proprio contesto culturale. |
[1] Le
risposte sono state raccolte in un liceo a indirizzo bio-sanitario
dove i ragazzi studiano l’evoluzione;
quelle che riporto non rappresentano un florilegio degli strafalcioni, ma
l’orientamento di una buona metà del campione.
[2] La trascrizione
dei brani è integrale. La scuola è
[3] Marcello Sala, Evoluzione a scuola, Change Torino 2007.
[4] Il riferimento di questo discorso è all’autopoiesi di Maturana e Varela.