Marcello Sala

 

DARWIN INSEGNATO (D)AI BAMBINI

-pubblicato in-

MicroMega n. 1 / 2008

Editoriale L’Espresso

 

Per chi non ricorda la vicenda dell’eliminazione dell’evoluzione dai programmi scolastici riassumo brevemente.

Prima del 2004 nei programmi delle scuole medie l’evoluzione è presente in quattro passaggi, fra i quali “Struttura e dinamica delle popolazioni in rapporto alle condizioni dell’ambiente. Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana.” sotto il titolo “Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi”.

Nel 2004 per intervento del ministro Moratti i quattro punti spariscono. La comunità scientifica si ribella, viene istituita la “commissione Darwin” presieduta da Rita Levi Montalcini, che nel febbraio 2005 consegna al ministro un documento in cui si “ingiunge” di reinserire l’insegnamento dell’evoluzione nella scuola primaria e secondaria di primo grado (elementari e medie).

Il ministro Moratti dichiara di recepire il parere della commissione e di dare conseguenti disposizioni amministrative. Ciò è sufficiente perché praticamente tutti i media e perfino i soggetti impegnati nella campagna “dalla parte di Darwin” comincino a ripetere che l’evoluzione è stata reintrodotta nei programmi. Invece passano otto mesi prima che vengano emanate le modifiche ai programmi di scienze per la terza media in allegato alla riforma dei licei, in cui c’è un unico richiamo all’evoluzione: “Interazioni reciproche tra geosfera e biosfera, loro coevoluzione. Darwin”.

Nella primavera 2006 si insedia il nuovo governo. Il ministro dell’Istruzione, ritornata Pubblica, Giuseppe Fioroni, nel settembre 2007 emana le nuove “Indicazioni per il curricolo”. Se si cerca ciò che in qualche modo possa essere ricondotto all’evoluzione, si trovano, tra gli Obiettivi di apprendimento al termine della classe terza della scuola secondaria di primo grado, le seguenti voci:

  Individuare la rete di relazioni e i processi di cambiamento del vivente introducendo il concetto di organizzazione microscopica a livello di cellula (per esempio: respirazione cellulare, alimentazione, fotosintesi; crescita e sviluppo; coevoluzione tra specie).

  Individuare l’unità e la diversità dei viventi, effettuando attività a scuola, in laboratorio, sul campo e in musei scientifico-naturalistici.

  Comprendere il senso delle grandi classificazioni.

  Riconoscere gli adattamenti e la dimensione storica della vita, intrecciata con la storia della Terra e dell’uomo.

  Comparare le idee di storia naturale e di storia umana.

  Comprendere la funzione fondamentale della biodiversità nei sistemi ambientali.

Come si vede, non sono mai usate le parole, come evoluzione appunto o selezione naturale, con le quali da 150 anni è conosciuta la teoria dell’evoluzione. Niente per la scuola elementare.

Una sfida

Quando il ministro dell’Istruzione proibì l’evoluzione ai minori di 14 anni, quello dei Beni Culturali spiegò che ciò era fatto per il bene dei bambini (<<è particolarmente importante fare attenzione all’età degli allievi ai quali si impartisce l’insegnamento dell’evoluzionismo...>>: da una dichiarazione dell’on. Buttiglione, novembre 2005). La premessa implicita del discorso di  Buttiglione è che la scuola è un luogo dove gli insegnanti indottrinano gli allievi: per questo è così importante discutere di quale dottrina. 

Per chi ha un’idea diversa della scuola, come un luogo in cui chi insegna crea le condizioni perché i bambini co-costruiscano conoscenza in un contesto sociale a partire dal riferimento alla realtà e dal bagno di linguaggio in cui sono immersi, la domanda “legittima” è se la teoria dell’evoluzione sia accessibile o no alle capacità di comprensione dei bambini.

É una sfida vera, proprio per chi pensa che si impari dal fare esperienza. L’evoluzione è difficile, perché tratta di fenomeni per lo più non osservabili direttamente, in luoghi lontani come le savane del Serengeti o inaccessibili come l’interno del corpo, che si sviluppano in tempi a volte “profondi” e per questo impercettibili, e soprattutto che implicano una irriducibile complessità: per ogni cosa da spiegare ci si ritrova a doverne spiegare altre dieci per di più in una rete di circolarità.

A scuola quando una cosa è difficile la si rimanda più in là nel curricolo, ma nel frattempo la mente dei bambini non si può mettere nel congelatore e ci si ritrova con diciassettenni che, alla richiesta di scrivere in non più di tre righe e di tre minuti che cos’è l’evoluzione, rispondono [1]:

«L’evoluzione è un cambiamento fondamentale nel corso della vita.»

«L’evoluzione è un processo con il quale un organismo animale o vegetale cambia quindi si evolve.»

La scienza ci dice che l’evoluzione è un cambiamento delle specie viventi che si realizza attraverso il succedersi delle generazioni e che è un fenomeno di natura e di scala completamente diversa dallo sviluppo del singolo organismo nell’arco della sua esistenza.

Ancora:

«… rappresenta dei cambiamenti che portano una specie a cambiare delle proprie parti o delle proprie abitudini per adattarsi meglio all’ambiente che la circonda e per riuscire a sopravvivere.» 

«L’evoluzione è il cambiamento delle specie in meglio, in un certo senso il progresso delle specie.»

La scienza ci dice che la direzione dell’evoluzione non è né necessaria, né casuale, ma contingente, che non è finalizzata, tanto meno in modo intenzionale e consapevole da parte del soggetto che evolve (la specie), non è un progresso né un miglioramento. Quelli dei liceali sono dunque errori gravi dal punto di vista scientifico.

La conoscenza dei bambini

Quelli che seguono sono brani di una conversazione a scuola tra bambini di otto anni, che non hanno studiato l’evoluzione, in cui l’insegnante non intervenire mai nel merito dell’argomento in discussione (ci tornerò più avanti) [2]:

AKIRA <<Evoluzione e crescita sono due cose diverse, perché crescita stai nella stessa specie, invece evoluzione da una cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>>

MARCO <<No: l’Australopiteco e l’habilis vivevano contemporaneamente; forse l’habilis e l’erectus.>>

GIULIA M <<Ci vuole molto, molto tempo.>>

FRANCESCO <<… la crescita è che cresci, evoluzione è che cambi di persona, muore uno e quello che rinasce è un po’ diverso.>>

LEO <<… il figlio è già un po’ di più evoluto.>>

e ancora:

AKIRA <<… se non si era evoluta la Terra, non c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e siamo arrivati noi.>>

LEO <<Potevamo evolverci in una maniera tale che potevamo vivere nel fuoco.>>

AKIRA <<Non è che c’è una specie di uomo e poi è finita la vita dell’uomo: per adesso dal primo essere vivente c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?- elettronici, robot…>>

Analizziamo come si caratterizza la conoscenza che i bambini elaborano attorno dell’evoluzione:

         distinzione di livello tra organismo individuale e specie:

 <<Evoluzione e crescita sono due cose diverse, perché crescita stai nella stessa specie, invece evoluzione da una cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>>

         non linearità:

 <<... l’Australopiteco e l’habilis vivevano contemporaneamente>>

         pertinenza della scala temporale:

<<Ci vuole molto, molto tempo.>>

         continuità tra storia della Terra, storia delle specie viventi, e storia umana:

<<… se non si era evoluta la Terra, non c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e siamo arrivati noi.>>

         contingenza:

<<Potevamo evolverci in una maniera tale che potevamo vivere nel fuoco.>>

         possibilità e imprevedibilità:

<<... per adesso dal primo essere vivente c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?- elettronici, robot… però quello ancora non è successo>>

Il confronto con gli errori grossolani dei colleghi diciassettenni è imbarazzante. Ma quello che colpisce di più è come i bambini affrontano anche il paradosso dell’identità e del cambiamento.

Risolvere un paradosso

Nel tempo dell’evoluzione il senso della continuità (<<Nicolò ha detto che da piccolo ti evolvi in grande, ma non è che proprio subito da 2 anni vai a 4: prima ci vuole un po’ di tempo.>>) si incontra con la discontinuità del cambiamento (<<Però crescere è un’altra cosa di evolversi, perché crescere è quando cresce una persona e diventa grande, invece quando ti evolvi diventi sempre altre cose e non finisce mai...>>). E qui si annida il paradosso: il soggetto di un cambiamento, proprio nel momento in cui diventa tale, cessa di essere quel soggetto, di esistere nella sua identità; Eraclito lo esprimeva così nel celebre frammento: <<Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l'uomo né le acque del fiume sono gli stessi>>

L'espressione "diventare un altro" è paradossale sia riferita all’individuo

<<... uno cresce e gli crescono i capelli e cambia un po’, però rimane sempre la stessa persona>>

sia alla specie

<<... evoluzione da una cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.>>

Da un lato la continuità negherebbe il cambiamento

<<Allora quando tu cresci resti sempre così?! Non ti crescono un po’ i capelli, resti sempre così?!>>

dall’altro lato il cambiamento negherebbe la continuità

<< ... non è sempre… non ha lo stesso nome, cambia, con l’evoluzione non è la stessa persona.>>

L’elemento chiave portato dalla creatività dei bambini, che preferisco identificare come diversità del loro pensiero complesso, è la non contraddizione tra continuità e discontinuità:

<<Maestra, però la crescita mica è uguale all’evoluzione, perché la crescita tu cresci e basta, invece l’evoluzione è una cosa che fluisce in un’altra.>>

A un certo punto della conversazione viene introdotto un esempio spiazzante

<<Per esempio c’è una partita di calcio e c’è un giocatore fino al cambio e così la cosa: muore quello e viene un altro.>>

e che tuttavia è utile per coltivare un’intuizione importante, quella della relazione tra morte e cambiamento ruolo della morte degli individui per la vita delle specie:

<<Un giorno moriremo noi e nascerà un’altra cosa.>>

 <<Io sono d’accordo, perché c’è un uomo che stava evolvendosi e muore, e stava già un po’ evolvendosi e il figlio è già un po’ di più evoluto.>>

È questa intuizione che porta a ri-formulare una descrizione del fenomeno che permette di uscire dal paradosso: l'evoluzione è un cambiamento che avviene tra una generazione e la successiva di individui viventi:

<<... la crescita è che cresci, evoluzione è che cambi di persona, muore uno e quello che rinasce è un po’ diverso.>>

Tutto ciò senza avere studiato a scuola l’evoluzione, ma essendo stati immersi nel bagno della cultura diffusa, che però è la stessa per tutti, con tempi diversi di immersione. 

Crescere è perdere qualcosa

Lo conversazione da cui ho tratto gli esempi precedenti è stata l’inizio di un percorso durato più di un anno [3] in cui i bambini hanno ricercato attorno alla tematica complessa dell’evoluzione con serietà assoluta, profondità di pensiero e intuizioni pertinenti, mettendo a fuoco i nodi essenziali di questo sistema di idee scientifiche, ma anche le sue relazioni con la storia, la cultura, la società, in definitiva con la propria vita.

Dal confronto con i liceali si deve ammettere che i ragazzi perdono la comprensione dell’evoluzione: dobbiamo cominciare ad accettare l’idea che crescere non vuol dire solo acquisire qualcosa.

Ma che cosa accade tra 8 anni e 17 anni? Possiamo dire che dal bagno di cultura diffusa e/o dalla comunicazione scientifica (media, contesti educativi) subentrano rappresentazioni errate. Questo discorso è ovviamente lungo e complesso e qui mi limito a un esempio, perché i bambini vi hanno dedicato molta attenzione nella loro conversazione iniziale: il comportamento dell’individuo e lo sviluppo nell’arco della vita come metafora dell’evoluzione della specie.

<<A questo scopo le pinne ventrali dei pesci che 300 milioni di anni fa si avventurarono nell’ambiente subaereo, si trasformarono in quattro robuste zampe.>> (da un libro di testo per la scuola media)

dove l’effetto (la sopravvivenza) diventa la causa (finale) e la causa (la diversità degli arti) diventa l’effetto. Oltretutto si attribuisce la causa all’intenzione e a una capacità di modificare il proprio corpo, il che può essere vero per i Pokemon o i Trasformer, ma non c’entra con l’evoluzione naturale.

Si può capire perché la crescita venga presa come immagine del cambiamento evolutivo: perché è l’unico cambiamento percepibile; ma essa riguarda l’individuo e quindi non può essere un modello dell’evoluzione che si sviluppa su grandi scale di tempo e che riguarda intere specie. I bambini l’hanno capito:

<<è vero, maestra, non è un’evoluzione: non è che a un anno ti chiami Andrea e a 4 anni Francesco, a 6…>>

Non vorrei con questi esempi avere fatto sorgere l’idea che questi sono bambini eccezionali. Si tratta di una classe di una scuola di provincia, che comprende come ovunque la propria quota di “casi difficili”. Conviene domandarsi invece quali sono le condizioni che hanno permesso a questo gruppo di bambini di elaborare una conoscenza così profonda.

L’arte di (non) insegnare

Nella conversazione l’insegnante rispetta una regola semplice: non dice mai la sua nel merito della discussione. È la prima mossa di un’arte di (non) insegnare; è utile ricordare che in greco arte si dice tèchne, a significare che non si tratta di riattizzare il mito di una innata propensione di alcune persone alla relazione educativa (anche questa “ce l’abbiamo nel DNA”?). Con un’altra espressione si può parlare di ”ascolto” dei bambini; l’ “ascoltare” richiede un atteggiamento etnografico, simile a quello dell’antropologo, per cercare di comprendere ciò che i bambini dicono nel contesto della loro cultura e non interpretandolo nel contesto della nostra. Questo sottintende la premessa che i bambini, come gli straneri, sono portatori di una cultura diversa dalla nostra. É facile cadere nell’equivoco della lingua condivisa: noi e i bambini possiamo usare le stesse parole, ma i significati, almeno all’inizio, sono diversi; ostacoliamo la comunicazione e la comprensione se non ce ne rendiamo conto.

L’ascolto non esclude azioni da parte dell’insegnante, anzi è fatto di sue azioni. Non credo si possa dire che cosa un insegnante deve fare, ma osservo ciò che fa ad esempio quando nelle conversazioni accetta la regola del gioco di non dire la sua nel merito, ovvero quando non insegna. Ad esempio fa interventi di “sostegno”, per dare dignità alla parola di tutti, o di “contenimento cognitivo”, delimitando un campo di ricerca e cercando di mettere a fuoco un oggetto là dove i bambini esplorano senza confini.

Ma soprattutto l’insegnante non accetta tutto ciò che i bambini dicono, bensì alimenta il “conflitto cognitivo”, mettendo in luce la contraddizione tra idee diverse o con dati dell’osservazione, o chiedendo di fornire ulteriori spiegazioni, di argomentare, di contestualizzare, senza giudicare però e senza anticipare le risposte “giuste”:

Nicolò <<Allora con l’evoluzione un Cromagnon è diventato una razza e un altro un’altra razza.>>

Maestra <<Sì, ma come?>>

Leonardo <<Hanno fatto i figli e…>>

Maestra  <<Erano tutti della stessa razza o c’erano già razze diverse?>>

Nicolò  <<No, erano una sola razza, come l’albero: il tronco è uguale per tutti, poi si formano i rami.>>

(non posso fare a meno di annotare con ammirazione come, di fronte a una domanda che pone una dicotomia, Nicolò risponde costruendo una relazione, raccontando una storia, perfettamente pertinente nel contesto evolutivo).

Quello che costruisce le condizioni per l’apprendimento è un educatore che assume come riferimento l’autoorganizzazione dei bambini [4]. Oggi non è più (solo) dalla scuola che i bambini ricavano le informazioni; ma le informazioni non bastano: la conoscenza è una costruzione che nessun altro può fare al posto del soggetto. L’educatore permette al gruppo dei bambini di co-costruire conoscenza a partire dalle esperienze che fanno e dal bagno di linguaggio in cui sono immersi, come del resto hanno fatto prima di andare a scuola.

È un educatore che accetta che il contenuto dell'apprendimento non sta nell'insegnamento, quando invece la premessa implicita del nostro sistema educativo è che il bambino impara ciò che gli si insegna; l’apprendimento è l'esito del processo di ristrutturazione dell'identità cognitiva del soggetto, l’insegnante può solo innescare il processo.

Raccontare storie

La forma dell’apprendimento appare nella descrizione di un osservatore che non è affatto esterno al sistema, che interviene modificando strategicamente il proprio intervento in base alle informazioni che ricava dall'osservazione. Questo significa che il percorso è un percorso di ricerca, con la sua quota di imprevedibilità di incertezza e di scoperta. E dunque l’educatore si assume il compito di ricostruire il percorso attraverso narrazioni adeguate, con cui lo restituisce ai suoi allievi ma anche a se stesso e alla scuola.

La storia di un’esperienza, di un viaggio di conoscenza, può essere raccontata solo dopo che il viaggio è avvenuto, a meno che non sia una storia inventata; perciò è molto stano che nella scuola si insista a descrivere i percorsi prima che avvengano: in questo modo sono solo percorsi vuoti, vuoti della vita delle persone che li percorrono.

In questo senso ancora una volta è significativa la conclusione del tutto imprevista del percorso sull’evoluzione dei nostri bambini:

l’insegnante al tutor: <<Caro tutor, è un po’ di tempo che non ci sentiamo. Adesso siamo in quinta. Avevo voglia, comunque, di farti sapere che la storia continua.

Ti avevo detto che mi sarebbe piaciuto collegare il discorso scientifico sulle razze con quello storico. E finalmente per una serie, come al solito, di coincidenze, l’occasione è arrivata.

Ho portato a scuola tre copie delle leggi razziali firmate da Mussolini nel 1938. Ne ho date una per ogni tavolo di lavoro insieme a delle domande guida, la solita tecnica usata per far loro incontrare un testo difficile argomentando tra loro. Gli articoli di questa legge sono davvero inquietanti, ti consiglio di leggerli. è incredibile come siano precisi, da un punto di vista linguistico burocratico formale, i criteri che definiscono l’appartenenza alla razza ebraica e come non abbiano nessun fondamento di tipo logico concettuale. Oltre alla definizione di razza, ci sono tutta una serie di prescrizioni incredibili nei confronti di quelli che sono ritenuti ebrei. Tra questi si dice che una donna ariana non può sposare un ebreo o uno straniero.

Una delle mie domande ai bambini era cosa pensavano di questi divieti. J. mi ha risposto ”Io maestra non sarei nato, perché mia madre non avrebbe mai potuto sposare mio padre che è di religione ebraica”.

Conosco J. da cinque anni e non sapevo che fosse per metà ebreo, non me lo aveva mai detto.>>.

Non è forse questo che ci attendiamo dalla scuola: che la storia e la cultura di ciascuno possano incontrare la Storia e la Cultura cui appartengono?

L’apprendimento dell’evoluzione può essere uno spazio per esplorazioni e scoperte su adattamento, specie e speciazione, ereditarietà, ma anche su razza ed etnia, natura e cultura, senza contare la messa a punto di strumenti matematici e meta-matematici (attorno a media e dispersione) e riflessioni epistemologiche sul lavoro dello scienziato. Impostato come un grande laboratorio, può diventare luogo privilegiato per lo sviluppo di competenze, ovvero di conoscenze non congelate in saperi scolastici, ma utilizzate per vivere consapevolmente e responsabilmente nel proprio contesto culturale.

 



[1] Le risposte sono state raccolte in un liceo a indirizzo bio-sanitario dove i ragazzi studiano l’evoluzione; quelle che riporto non rappresentano un florilegio degli strafalcioni, ma l’orientamento di una buona metà del campione.

[2] La trascrizione dei brani è integrale. La scuola è la Jole Orsini di Amelia (TR), la classe è la 3a beta anno 2000-2001, l’insegnante Stefania Cornacchia.

[3]  Marcello Sala, Evoluzione a scuola, Change Torino 2007.

[4]  Il riferimento di questo discorso è all’autopoiesi di Maturana e Varela.